27 aprile 2007

Appunti di viaggio... (1)

26 aprile 2007. Primo giorno.

            “Guarda, nonno! Un papero!” strilla eccitatissimo un bimbo seduto non distante da me, l’indice teso verso l’oblò, nell’altra mano il binocolo. Al di là del vetro, in basso, un tappeto di casette multicolori scorre, ormai a poca distanza, sotto la pancia del rosso aeroplano della Mc Duck Airlines che si è staccato quindici ore fa dalla pista di Madrid, per portarmi a fare conoscenza con la città più affascinante e bizzarra d’America.
            “Ce ne saranno tanti, vedrai...” fa il nonno, sorridendo. In effetti, di paperi è pieno il velivolo: paperi distinti di mezza età in giacca e cravatta, oppure paperotti in jeans e T – shirt, identici a quelli conosciuti sulle pagine dei fumetti, che tornano a casa dagli angoli più disparati del pianeta. Ma vederne uno da quassù nel suo “ambiente naturale” fa tutto un altro effetto. E il mio occhio, man mano che ci abbassiamo, inizia a cogliere sempre più particolari nella variopinta distesa di villette che scivola sotto di me: auto dalle forme tondeggianti dipinte a colori vivacissimi, alberi di pino e abete accanto alle case che sarebbero perfetti per Cip e Ciop, rosse cassette della posta tutte uguali, di fianco ai cancelletti dei giardini...
            E dopo quindici ore trascorse inseguendo il sole sull’Atlantico, il breve scalo a New York e la traversata coast-to-coast degli States, siamo arrivati, finalmente. Quasi non ci credo. L’orologio segna le tre del mattino, ma qui sono le 19, il sole è ancora alto.
        “Laggiù!” fa uno “Sulla collina!” E tutti i miei occasionali compagni di viaggio incollano il naso all’oblò, sbigottiti, mentre sotto i nostri occhi si apre l’ampia valle del fiume Tulebug, che scorre pigro verso il Pacifico immenso. È solo un attimo, il tempo di sospirare di meraviglia, e il profilo inconfondibile della Killmule Hill scompare dietro un’altra collina, e anche il mare non si vede più. Appena il tempo di rendermi conto che l’ho vista, che allora esiste davvero.



            In a few minutes, we will land in quack cape airport, Duckburg, Calisota. Weather is fine and temperature is 22.0 °c. Please keep your belts fastened.

            Così gracchia metallico l’altoparlante, con un fortissimo accento del sud-ovest, esasperato, se possibile, dalla risonanza nasale e paperesca della voce dello steward. Intanto ci siamo abbassati ancora, l’aereo si inclina descrivendo un’ampia curva, e non ci sono più case ma solo campi, trenta metri più in basso… anzi venti... dieci... cinque... BOING! ‘cipicchia che botta! RI-BOING! Ma allora è vero! Non sono i disegnatori che esagerano, qui gli aerei rimbalzano realmente sulla pista come fossero palle di gomma! Vuoi vedere che anche le auto, quando vanno veloci, viaggiano con tutte e quattro le ruote staccate dalla strada?
             Mentre l’aereo si ferma e io rinuncio a cercare di ripiegare la mia carta–lenzuolo della città (sulla quale, ho appena realizzato, mancano i nomi di un sacco di strade) cacciandola tutta accartocciata nello zainetto, affianchiamo un altro jet, nero e rosso, dalle forme aerodinamiche e ultramoderne. È l’aeroplano della Rockerlines, partito insieme al mio da Madrid e arrivato già da un’ora buona (qui quel poco che non è di Paperone è di Rockerduck, devo mettermelo in testa). Al suo confronto, il velivolo su cui ho viaggiato sembra un residuato della prima guerra mondiale. E vista la compagnia cui appartiene, non mi stupirei se lo fosse veramente.

* * *


            È passata un’ora. Il sole sta per tramontare a Paperopoli e si accendono i lampioni, mentre il bus attraversa di corsa le strade deserte in direzione dell’autostazione, che secondo la carta ormai tutta stropicciata che ho in mano dovrebbe trovarsi nella zona est della città, abbastanza vicino ai confini orientali del Coot Park, il grande parco comunale che si vede in tutte le storie.
            Sfilano ai lati capannoni pieni di crepe, magazzini al piano terra privi d’insegna con le saracinesche abbassate. Un cartellone pubblicitario, dall’aria un po’ datata, decanta i pregi di un certo Woodland Hotel, che sembra una baita di montagna (ma dove l’ho già sentito?), mentre su di un muro che un tempo doveva essere bianco, un’enorme scritta blu fatta con lo spray propone una similitudine tra la squadra locale del Pepper (anche questa non mi è nuova) e un rifiuto organico. E inizio con stupore a rendermi conto di come questa città sembri piccola se la vedi disegnata e di come sia in realtà tentacolare e immensa.
            Siamo in una zona industriale, si direbbe. Oltrepassiamo quella che pare una grossa fabbrica dai muri giallastri, le finestre a nastro e tre alte ciminiere fumanti, contrassegnata con l’inconfondibile marchio del dollaro. Man mano che procediamo, compaiono i primi negozi. Una drogheria che sorge in un minuscolo edificio rosa, con una tenda verde sopra l’ingresso, altre botteghe man mano che ci si avvicina al centro. Ma anche edifici in rovina, per metà scrostati, con i mattoni in vista. Un orrendo palazzotto giallo con l’intonaco che cade a pezzi, a un crocicchio, con una grande vetrata sporca al piano terra e la porta aperta, evidentemente abbandonato, potrebbe essere un nascondiglio ideale per la Banda Bassotti (a proposito... chissà se incontrerò i Bassotti!).
            Ma dove sarà tutta la gente? Sembra che questo quartiere sia deserto. Dove sarà la folla che si vede sempre nei fumetti, mi chiedo. E mi chiedo anche perché mai Paperon de’ Paperoni mi abbia mandato a chiamare e mi ospiti qui a sue spese. Cosa può volere il papero più ricco del mondo da un illustre sconosciuto come me?
            E soprattutto, chi sarà il misterioso “accompagnatore” da lui mandato a ricevermi all’autostazione, che stanotte mi ospiterà a casa sua? Come vorrei che fosse Paperino! Chissà se potrò conoscerlo...
            Mentre mi arrovello su queste domande, ecco che fuori dai finestrini quel quartiere fatiscente è scomparso... ora siamo in una zona più elegante e piena di alberi... direi che siamo in periferia e dovrebbe essere il quartiere sportivo. Ad un certo punto, lungo una curva, passiamo accanto a un lunghissimo e imponente edificio rosso e grigio, con una scalinata monumentale d’accesso e un filare di pini che corre lungo tutta la facciata. Una costruzione maestosa e interminabile, che, stranamente, non è illuminata da nemmeno una luce... però anche questa ho l’impressione di averla già vista... quartiere sportivo... mumble... quartiere sportivo... Ma certo! È la Polisportiva De’ Paperoni! Ecco perché è tutta buia... neanche i soldi per l’illuminazione vuole spendere, quello spilorcio!

* * *

           Questa di Paperopoli è l’autostazione più grande che abbia mai visto finora, penso mentre attraverso il grande atrio, insieme ai miei numerosi compagni di viaggio carichi di zaini che qui, come per magia, sono diventati improvvisamente molto più gonfi, buffi e colorati. L’aria ha un odore particolare, mai sentito, come di carta e d’inchiostro. Ma mi piace. Girare per una città dei fumetti sta cominciando a piacermi, ad ogni angolo c’è una sorpresa...
            E intanto esco sul vasto piazzale davanti alla stazione e mi guardo intorno. C’è pieno di taxi in sosta, dalle forme soffici e tondeggianti, rossi con i parafanghi blu e un disegno a scacchiera sulla fiancata. In ognuno c’è un autista vestito di blu, con un cappello simile a quello dei poliziotti e il nero, tondo, buffissimo naso che caratterizza tutti gli abitanti senza il becco di questa città. Una piazza senza nome, tanto per cambiare. La cerco sulla mia cartina tutta spiegazzata: è segnata, ma di un nome nemmeno l’ombra. Non appena trovo una libreria mi compro una cartina della città fatta bene, altro che! Ce ne fossero, però... in questo quartiere, ancora abbastanza periferico, sembra tutto chiuso.



            Giro l’angolo: dietro l’edificio dovrei trovare il mio accompagnatore di oggi ad aspettarmi. E in effetti, accanto a un muro scrostato pieno di scritte (una delle quali, piuttosto sgrammaticata, recita De’ Paperoni ladro: tutto il mondo è paese, penso), un giovane, magrissimo papero dai lunghi capelli spettinati sorseggia una birra, appoggiato a uno scooter sgangherato, buffissimo. Non mi aspettavo certo che Paperone mi mandasse a prendere in limousine, ma viaggiare su quel coso mi sembra degno di un aspirante suicida...
            Intanto il mio accompagnatore si stacca dallo scooter e si avvicina. Indossa una larga felpa con la scritta Duck Power e un cappello di lana... un cappello di lana... “Fethry! Fethry, oh dear! How do you do!” mi esce, senza che abbia pensato minimamente di dirlo. “Mr. Zniga, I suppose?” fa lui. “I’m Fethry. Pia...cere... How do you say in Italian?” (per comodità d’ora in poi tradurrò tutte le conversazioni in italiano). “Lo zione mi ha detto tutto di te! Hai viaggiato su uno dei suoi rottami, vero?” Ha un accento identico a quello dello steward sull’aereo. Non te lo immagineresti leggendo i fumetti. “Scusa se non ho altro che ‘sto rottame per venirti a prendere... ti offrirei qualcosa ma... a proposito... vuoi un sorso di birra? Non è la Mc Duck, quella secondo me fa schifo... è una birra ecosolidale che costa niente. La fanno in Brasile, dalle parti di Dinamite Bla... anzi, credo la produca proprio lui...”  Ma daiii! Una birra prodotta da Dinamite Bla! “Certo che la voglio! Grazie mille! Non per scroccare, eh... che poi non dite che noi genovesi siamo tutti uguali...” “Ah! Genovese? Andrai d’accordo con lo zione, allora! Dai, salta su, che ti porto a casa mia!”
            Wow, a casa di Paperoga, non riesco a crederci! Caro Paperoga, non si smentisce mai, penso mentre salgo titubante dietro di lui sullo scooter. “Tieniti forte!” E ancora non ha finito di dirlo che già sfreccia a razzo sull’asfalto. Come nei cartoni animati, ho l’impressione di restare un attimo sospeso nel vuoto prima che il mio corpo segua il movimento del bizzarro mezzo. “Frena!” urlo “Vuoi che ci ammazziamo entrambi?” Ma lui, zigzagando tra strane automobili e autobus strapieni con la sicurezza di un campione di slalom, “Tranquillo!” risponde urlando, per coprire il rumore del traffico che ora è più intenso “Qui, anche se cadessi dal tetto del Deposito, al massimo finiresti all’ospedale tutto fasciato da capo a piedi come una mummia, e due vignette dopo saresti più sano e vitale di prima...” Sarà, ma non sono tranquillo lo stesso.
            Dopo tre o quattro minuti di corsa folle e dopo aver evitato per un pelo un enorme camion pieno di terra di un certo Timothy Diesel – mi sono visto la scritta a venti centimetri dalla faccia – attraversiamo una zona con edifici più alti e dall’aspetto più monumentale. Sembrerebbe una zona commerciale. Non ho bene idea di dove siamo... ma penso che anche i nomi di questa parte della città non siano segnati, sulla mia carta. Però comincio finalmente ad ambientarmi. Sbirciando tra i palazzi ai lati del viale che sto percorrendo vedo del verde: quello deve essere il famoso parco. Stiamo viaggiando verso sud, tra non molto dovremmo attraversare il fiume. Eccolo infatti: il Tulebug, che non si vede praticamente mai nei fumetti, ma c’è. E al di là il terreno si gonfia e si articola in mille collinette tutte coperte di piccole case colorate, quelle che ho già visto dall’alto, dall’aereo, e che si vedono in tutti i fumetti. Colori vivaci, che sarebbero orribili in ogni altra città, mentre qui si armonizzano a meraviglia con l’ambiente. E gente qui ce n’è, per le strade, uomini dal naso nero che portano a spasso cani simili a Pluto, oppure strani personaggi col becco a punta che leggono il Papersera sulla sdraio, con la lampada accesa. Ormai è praticamente buio.
            Anche Paperoga ha rallentato e dopo un po’ si ferma in prossimità di una casetta, una casa che non ricordo di non aver mai visto nei fumetti. Appena sceso dallo scooter guardo verso nord, per vedere se riesco a scorgere da lontano la collina di Paperone. Credevo si vedesse da ogni punto della città, invece non è così. Da qui per esempio non si vede: la vista si apre verso nord-est, in direzione della periferia e del quartiere industriale che abbiamo appena attraversato. “Cos’è?” chiedo meravigliato, indicando una sorta di pinnacolo roccioso, lontanissimo, con una strana costruzione in cima... che mi pare abbia un aspetto vagamente familiare, anche se non ricordo bene dove l’ho già vista. “Quella casa in cima alla roccia, dici?” fa lui mentre prova le mille chiavi del mazzo che ha in mano cercando quella giusta per aprire casa “Ci abitava un tizio, una volta... uno veramente furioso!” (per dirlo lui, furioso doveva esserlo davvero!).

* * *


            L’interno della casa è indescrivibile. Pareti dipinte a colori vivaci, poster di cantanti sconosciuti e di rivoluzionari di paesi dai nomi improbabili, il simbolo della pace e i colori della Giamaica dappertutto, e perfino, in un angolo, un grosso narghilè che ha l’aria di esser stato usato da non molto. Nell’aria un odore dolce e inconfondibile. “Paperoga!” mi stupisco “Ma è proprio casa tua? Non è mai stata così!” “Non dirmelo!” fa lui “Non immagini lo sbattimento, pulire e far sparire tutto ogni volta che devono disegnare l’interno di casa mia! Sono politicamente scorretto, dicono, capisci? Comunque mettiti comodo, intanto!” Non me lo faccio ripetere e mi sdraio sul divano (non dormo da un giorno intero!) mentre il caro Paperoga fa partire lo stereo a palla, giusto per conciliare il sonno...
            Woooah! The sun rises / Over pear treeees... gridano due voci che sembrano Simon & Garfunkel, su una base squisitamente anni Settanta. Ma questa canzone proprio non l’ho mai sentita. “Cos’è, un inedito di Simon & Garfunkel?” chiedo distrattamente, mentre già le palpebre mi si chiudono. “No” fa lui mostrandomi due tizi sulla copertina di un disco. “Sono loro! Se vuoi te lo duplico, sono fortissimi!” (Switt e Hatis! Ma certo! Quelli che costrinsero Paperone a finanziargli un tour in giro per il mondo in quella storia del...)
            “Ehi Zniga! Vuoi un tè?” è l’ultima frase che sento (ma quanto è comodo questo divano!), mentre già dietro i miei occhi chiusi iniziano a scorrere le immagini di questa giornata indimenticabile, le villette dall’alto, l’autostazione, e piano piano le voci di Switt e Hatis, i colori della Giamaica e l’odore dolciastro che permea la casa di Paperoga si fondono piano piano nella nebbia sempre più scura e crescente di un sonno ristoratore... avrei mille cose da chiedere, tipo perché non ci sono i nomi delle strade sulla mia carta, tipo come si chiama questa via dove siamo, tipo se domani andremo al Deposito... ma c'è tempo, si sta così bene qui... “Buonanotte Paperoga...” Buonanotte Paperopoli...



Note

L’aspetto generale del territorio di Paperopoli, il nome del fiume e l’aspetto della Killmule Hill, così come la presenza dell’isolotto al centro della baia, sono tratti dalle opere di Carl Barks e Don Rosa, nelle quali questi elementi si ripetono costantemente.

Il Woodland Hotel compare in Paperino dinosauro dilettante di Sisto Nigro / Federico Mancuso, I P 316, ottobre 2006

Il riferimento alla squadra locale del Pepper si trova in Paperinik e il tifoso criminoso di Giorgio Pezzin /Guido Scala, I TL 1734 – A, febbraio 1989

I particolari riguardanti il quartiere industriale sono tratti prevalentemente da Paperino e il croccante al diamante di Giorgio Pezzin / Giorgio Cavazzano, I TL 1108, febbraio 1977; dalla stessa storia è tratto il riferimento a Timothy Diesel e alla sua attività di trasporto terra, nonché alla bizzarra costruzione che sorge in cima al pinnacolo roccioso. L’ubicazione del pinnacolo nei pressi del quartiere industriale, alla periferia orientale della città, è dedotta dal fatto che Paperino e Paperoga nella storia citata impiegano pochi minuti a piedi a raggiungere il pinnacolo dalla sede del grossista di dolciumi ed ex gangster Gian Duiott (che è l’edificio in abbandono menzionato nel racconto).

L’aspetto della Polisportiva De’ Paperoni è tratto da Zio Paperone e il calcio a buon mercato di Riccardo Secchi / Giorgio Cavazzano, I TL 2443–1, settembre 2002

La livrea dei taxi di Paperopoli e la divisa dei tassisti sono quelli che compaiono in Sgrizzo, il papero più balzano del mondo di Romano Scarpa, I TL 465, ottobre 1964

Il riferimento alla canzone Sun&Pears e al duo Switt – Hatis è tratto da Zio Paperone e il duo singolare di Giorgio Figus / Valerio Held, I TL 1845 – C, aprile 1991, dove la canzone è menzionata con il titolo Il sole e le pere.

7 commenti:

  1. Era un po' che non visitavo il blog.

    Post fico, comunque.

    RispondiElimina
  2. Bravissimo, veramente!!!!!!!!!!!! Sembra proprio di essere lì, è il viaggio che anch'io ho sempre sognato di fare.

    Mi raccomando, continuala, che non vedo l'ora di leggere come prosegue!!!!! (Ormai sono una tua fan)

    RispondiElimina
  3. Non proprio un articolo ma simpatico,divertente e leggibile.

    RispondiElimina
  4. Più che leggibile intendevo scorrevole.Ma non c'è l'opzione edit?Splinder merda!

    RispondiElimina
  5. Leggerò al piu' presto, promesso!

    E, come al solito, complimenti per i disegni! ;)

    RispondiElimina
  6. Attendo con impazienza la seconda parte... by lettrice del Papersera

    RispondiElimina