31 marzo 2007

Dizionario: 1-10

Categoria: Dizionario.
Titolo per esteso: Dizionario alfabetico dei termini giapponesi di maggior impiego nel mondo dell'animazione e dei fumetti.
Bene, cominciamo dai numeri! Non è certo una scelta stravagante: il numero è portatore di vari significati, dalla storia della nascita dei segni, al concetto stesso che quel numero esprime (pensiamo al significato che le filosofie e le religioni hanno dato ai numeri, o anche l'uso quotidiano che ne facciamo - coi voti, per esempio).

Domanda: qualcuno si è chiesto perché il titolo è "1-10" e non "0-9"?
Beh, chi l'ha fatto non si è posto un quesito tanto stupido: com'è noto il mondo occidentale ha ereditato i segni grafici dagli Arabi durante il Medioevo, e coi segni anche l'utilizzo dello zero all'interno di un sistema di numerazione posizionale decimale (rimando alla voce "zero" della Wikipedia). Beh, e prima cosa c'era? I numeri romani: I, II, III [...] X, poi XI, XII e così via. Niente zero, e dieci indicato con un unico segno: queste due caratteristiche si ritrovano nel sistema giapponese1: i segni principali sono quelli che contraddistinguono i numeri da 1 a 10 e sono di importazione cinese2, poi si somma: 10+1, 10+2 e così via.
La crescente occidentalizzazione del Giappone ha fatto sì che venisse importato il più funzionale sistema posizionale e con lui la grafia araba dei numeri, ma - come accade da noi - i numeri arabi non hanno completamente soppiantato quelli giapponesi e noi cultori di manga e anime ne sappiamo qualcosa... ed ecco spiegata la presenza di questa voce nel nostro dizionario!

Note tecniche: il giapponese ha due letture dei kanji, On e Kun; ho riportato sotto le immagini la lettura On, quella usata per contare e nelle parole composte3, anche se in due casi particolari non viene usata.


1 UNO e DUE - Simbolo facile per il primo numero. Nel manga e anime Bleach è nel nome del protagonista, Ichigo (accento sulla prima I), che significa "primo (Ichi) guardiano (Go)", in quanto primogenito maschio. "Go" vuol dire anche 5 (scritto però col kanji che vedremo sotto), e spesso Tite Kubo associa il numero 15 a Ichigo. Inoltre "ichigo" scritto con altri ideogrammi ma pronunciato alla stessa maniera vuol dire fragola... beh, un dio della morte con una spadona alta quanto lui che si chiama Fragola...
Del numero 2 faccio notare la struttura del kanji che, come per i numeri romani, tratta il 2 come un 1+1.

4 TRE e QUATTRO - Come sopra per l'ideogramma del 3, una sorta di 1+1+1.
Per chi ha visto o letto Naruto, "Sandaime" è il nome con cui ci si riferisce al terzo (appunto) Hokage, il vecchietto barbuto maestro praticamente di tutti i ninja di Konoha, cui curiosamente succede il quinto Hokage, "Godaime" (la prorompente Tsunade)... Che è successo al quarto Hokage? Per chi non lo sa, è morto per sigillare un demone dentro Naruto. E perché il quarto doveva essere tanto sfigato?
La lettura On di 4 è "shi", come da immagine, ma viene usata pochissimo, preferendole la lettura Kun "Yon/Yo" per un motivo molto semplice: "shi", scritto col kanji corrispondente, vuol dire "morte"... insomma, il 4 porta sfiga! Nelle competizioni lo si evita accuratamente e non esiste negli hotel la stanza 444. Ecco spiegato il mistero del quarto Hokage scomparso tragicamente e, per tornare a Bleach, il perché la quarta compagnia tra le 13 in cui sono divisi gli dei della morte è quella più maltrattata dalle altre, quella che ha compiti come pulire le fogne e gestire le strutture mediche.

56 CINQUE e SEI - Ecco finalmente il 5, "Go", appunto, come nel gioco di parole del nome Ichigo e in "Godaime".
Segnalo per curiosità il titolo originale dell'anime proposto da Mtv anni fa, Blue Submarine No. 6: "Ao no rokugo", in cui "ao" vuol dire blu, "no" è una preposizione posposta ad "ao" e "roku" è il numero 6... ignoro che significato prenda il "go", immagino sia un classificatore4 e comunque non sta certo per "cinque"...!

78 SETTE e OTTO - Come per il 4 anche la lettura On del 7 è sconsigliata e gli viene preferita la lettura Kun "nana". Mmmm... Nana... beh, come non citare il manga (ora anime e film) di Ai Yazawa! Il nome delle due protagoniste vuol dire esattamente "sette", tanto che Nana Komatsu - Hachi è ossessionata da questo numero.
Per non allontanarci da questo manga, sottolineiamo anche il gioco di parole Nana-Hachi 7-8, conseguenza della scelta di Nana Osaki di soprannominare l'amica col tipico nome che si da ai cani (come "Fido" da noi, insomma). Tra l'altro il numero 8 porta bene.

910 NOVE e DIECI - Neanche il numero 9 piace molto ai giapponesi, condivide infatti la stessa pronuncia della parola che significa sofferenza (ma dico, 3 numeri sfigati nei primi 10!).
I numeri successivi al 10 si formano, come già accennato, come 10+1, 10+2 etc.: "juuichi", "juuni" etc.; curiosamente il 14 e il 17 non presentano problemi nella lettura On: "juushi", "juushichi". Per i numeri 20, 30 etc. funziona al contrario: "nijuu", "sanjuu" etc.


Trovare riferimenti nei manga e negli anime ai numeri non dovrebbe essere difficilissimo, così a braccio ho proposto una rapida carrellata suscettibile di modifiche e ampliamenti, anche proposti da chi legge, e non escludo la possibilità di essere io stessa ad aggiungere qualcosa nel caso in cui mi imbatta in altri riferimenti interessanti.

Prossimamente: I termini che iniziano per A-C (o di più, o di meno... in base a quanto lungo mi viene il post)




1Al momento non ci interessa che i romani avessero, per i primi 10 numeri, 3 segni principali che combinavano (I, V, X), e non 10, come con gli ideogrammi; tra l'altro sarebbe interessante cercare degli studi sulla mancanza del concetto numerico di "zero" e il non utilizzo di un sistema posizionale decimale in una regione come la Cina - patria dei numeri giapponesi - a stretto contatto con l'India, dove questi due concetti sono nati.
2I numeri cinesi (la maggior parte dei kanji, cioè gli ideogrammi che indicano una sola parola, vengono dalla Cina) sono i più usati e permettono di contare oltre il 10; esiste una numerazione giapponese, con diverse pronunce e ideogrammi, ma si limita ai numeri 1-10 ed è usata per contare cose indefinite.
3Tra l'altro la lettura On è quella più legata alla lettura cinese, mentre la lettura Kun è la versione "giapponesizzata"; nel caso dei numeri che, come abbiamo detto, sono di origine cinese, la lettura On è una scelta obbligata!
4Per contare i giapponesi usano insieme al numero un suffisso, detto "classificatore", per indicare l'oggetto che viene contato (animali, piani di un palazzo, libri, anni d'età etc.), per esempio "nisai" = 2 anni inteso come età.

Argomenti correlati: Dizionario A, Dizionario B (1), Dizionario B (2) - C

27 marzo 2007

PAPER DINASTIA

“THE LIFE AND TIMES OF SCROOGE MC DUCK” (“PAPER DINASTIA”)
DI KENO DON ROSA,
ovvero VITA E FANTASTILIARDI DI PAPERON DE’ PAPERONI





PAPERON DE’PAPERONI OGGI

        Chiudete gli occhi, e immaginate di trovarvi a Paperopoli, nella via principale della città. La conoscete? No. E come potrebbe essere altrimenti? Facciamo un altro gioco: provate a descrivere dettagliatamente a parole l’aspetto estetico della villetta di Paperino o della piazza principale di Paperopoli, con tanto di Municipio. Sareste in grado di farlo? Io penso di no, per il semplice fatto che, almeno fino ad oggi, non esiste una topografia ufficiale della città di Paperopoli (Duckburg), e che gli  autori – sceneggiatori e disegnatori – ci offrono quotidianamente interpretazioni personali riguardo alla disposizione geografica di strade ed edifici più importanti della città abitata dai paperi più famosi del mondo.
        Tuttavia essi concordano all’unanimità su di un elemento: il deposito di Paperon de’ Paperoni (Scrooge Mc Duck), il papero più ricco del mondo, e sulla sua collocazione in cima alla Collina Ammazzamotori (Kill-motor Hill).
    Vero è che ancora oggi sono riscontrabili palesi differenze da un punto di vista estetico: alcuni artisti preferiscono tratteggiare la Collina Ammazzamotori  come un rilievo naturale piuttosto marcato, altri la dipingono invece come un piccolo colle dai fianchi molto più dolci. Senza contare che i disegnatori italiani (da Romano Scarpa in poi) rappresentano l’edificio sormontato da una grande cupola, che manca nelle tavole di tutti i suoi colleghi d’oltreoceano.
        Tuttavia, queste differenze non sono mai così radicali da far sì che da una storia all’altra muti completamente la fisionomia di quella parte della città. Aggiungerei, anzi, che sono davvero rare le storie ambientate a Paperopoli, in cui non compaia almeno una volta l’immagine del deposito sulla sommità della collina.
        Questa inevitabile constatazione ci introduce ad un quesito essenziale: come mai, se nel linguaggio artistico disneyano vige la consuetudine di non attribuire molta importanza alla rappresentazione geografica dell’intera città di Paperopoli  e all’estetica dei suoi edifici principali, gli autori smentiscono questa regola nella misura in cui convenzionalmente rappresentano il deposito di Paperone in cima alla collina?


Come l'Acropoli per Atene o il Colosseo per Roma, il Deposito è il simbolo inconfondibile di una città.


       
La risposta è data dallo spessore che contraddistingue il personaggio di Paperone nel panorama dei protagonisti disneyani. Paperopoli nasce grazie a Paperone, “è di Paperone”. E allora non è azzardato asserire che Paperone è l’essenza stessa della città in cui vive, l’anima di una Paperopoli che senza di lui sarebbe rimasta un nucleo rurale, ai piedi di un fortino diroccato.
        Da questa valenza simbolica che la figura di Paperone sembra assumere fin dai tempi di Carl Barks, il suo creatore, nasce l’esigenza di una biografia, che necessariamente ci spieghi come un piccolo papero scozzese abbia potuto portare quelle quattro case sparute sulla costa occidentale degli Stati Uniti a diventare la capitale del “duck power”, se mi è concessa questa licenza linguistica. Paperone apre la strada a tutti gli altri importanti e famosi personaggi che conosciamo, i quali devono tutti qualcosa a questo anziano palmipede: non potremmo, per esempio, identificarci nel ben riuscito personaggio di Paperino (il cui nome per esteso è Donald Fauntleroy Duck), il “celebre pennuto qualunque”, lo svogliato, lo sfortunato, l’antieroe per eccellenza, se prima di lui un vecchio papero scozzese non avesse girato il mondo, alla ricerca della “ricchezza perfetta”, tra le mille peripezie e i pericoli di una vita avventurosa.


L’IDEA CHE NASCE DAL GENIO

   
    Keno Don Hugo Rosa coglie la palla al balzo, e compone quello che può essere definito come un moderno “poema”,  strutturato in vignette, anziché in versi: The life and times of Scrooge Mc Duck, noto in Italia come Paper Dinastia o, più semplicemente, la Saga[1].
        Questo autore, chiamato per brevità Don Rosa, nasce nel 1951 a Louisville (Usa), da famiglia di chiare origini italiane: il nonno, Gioacchino Rosa Gastaldo, nacque nel 1877 in provincia di Udine, ed emigrò all’inizio del Novecento negli Stati Uniti, dove per ragioni linguistiche venne soprannominato Keno (un diminutivo, appunto, di Gioacchino).



Don Rosa, l'erede di Carl Barks e autore della Paper Dinastia, mentre disegna un papero (si noti il becco sul foglio)


        Il nipote di questo emigrante italiano, erediterà quel “Keno” da suo nonno, e si distinguerà nella sua famiglia per una irresistibile passione verso i fumetti, in particolare verso la figura di Paperon de’ Paperoni. Nel 1986 Don Rosa riesce a soddisfare il suo sogno di sceneggiare e disegnare storie Disney che vedono protagonista Paperone. Ed arriverà, nel 1993, a terminare la Paper Dinastia, che in Italia viene pubblicata per la prima volta sul mensile Zio Paperone, dal numero 70 del luglio 1995 al numero 81 del giugno 1996.
        Si tratta di un’opera che potremmo definire di “restauro”. Infatti Don Rosa, pur dimostrando una creatività ed una “razionale fantasia”[2] fuori dal comune, altro non fa che tessere un mosaico, attingendo informazioni relative alla vita di Paperone direttamente dalle opere del suo creatore Carl Barks.
        Non c’è episodio, fra quelli narrati nella Paper Dinastia, che non sia stato tratto da qualche precedente storia di Barks, anche se magari nella stessa si faceva ad esso solo un minimo cenno o riferimento.
        Affidandosi in tutto e per tutto a Carl Barks, Don Rosa non si limita a sfruttare il genio del creatore dei paperi, ma rende a questa colonna del fumetto mondiale un tributo, un monumento sotto le mentite spoglie di una biografia di Paperone. A sottolineare la stima che l’autore italo americano ha nei confronti di Barks, stanno le prime tavole di tutti i capitoli della Saga, in cui è riportata la scritta D.u.c.k. (che in inglese significa “anatra”, a dimostrazione del tema trattato nella storia), spesso camuffata nei disegni, e talvolta quasi impossibile da individuare[3]. Questo simpatico gioco di lettere, è in realtà una sigla, le cui componenti sono le iniziali di questa frase: Dedicated (to) Uncle Carl (by) Keno (in italiano: dedicato allo zio Carl, da Keno). Lo zio Carl cui Don Rosa dedica ogni capitolo della Paper Dinastia è, ovviamente, Carl Barks, il padre dei paperi.


LO STILE DI DON ROSA, ESPRESSO AL MEGLIO NELLA PAPER DINASTIA

        Non è un caso che gli appassionati di questo autore siano unanimemente concordi nell’attribuirgli quella caratteristica  - cui ho già fatto menzione – della razionalità. Don Rosa, infatti, è in grado di distinguersi per uno stile inconfondibile, che mischia l’elemento fantasioso, spiritoso (molto spesso addirittura satirico) e poco verosimile sul piano della trama di determinati episodi, ad un razionalismo quasi maniacale. E’ difficile spiegarlo a parole, occorre osservare alcune delle tavole della sua biografia di Paperone per percepirne l’essenza: ecco allora che immediatamente saltano all’occhio i particolari rifiniti minuziosamente, gli sfondi sempre curati nei dettagli. Ma, cosa ancora più importante, in quasi tutte le sue vignette sono presenti elementi estranei ai protagonisti della scena, elementi dei quali, di volta in volta (per i lettori più appassionati, che non si limitano ad una sola e superficiale lettura dell’opera) si scopre l’esistenza.  Consapevole che sarebbe fuori luogo entrare ulteriormente nel dettaglio su questo specifico argomento, onde evitare di rovinare il piacere della lettura e dell’intrattenimento a chi si volesse dilettare per la prima volta a sfogliare le pagine di quest’opera, vorrei sottolineare come l’aspetto poc’anzi evidenziato non abbia l’intento di rivelare parti determinanti della trama o delle singole vignette della Saga, ma solamente quello di dimostrare come lo stile di Don Rosa sia, per quanto appunto molto fantasioso e spiritoso (se così non fosse, del resto, non si tratterebbe comunque di un “fumetto” che porta il marchio della Walt Disney) anche estremamente “fiammingo”, per rubare un termine al mondo della pittura. Le tavole ci vengono presentate più come le scene di un film, in cui la macchina da presa scova ogni singolo aspetto particolare dello sfondo, e il campo d’azione è ricco di elementi. Il fatto che si tratti di semplici “disegni” ci indurrebbe a paragonare le tavole di Don Rosa più a delle fotografie che alle scene di un film, ma il dinamismo di ogni figura presente in esse è così tangibile, che risulta più riuscito l’accostamento con l’inquadratura cinematografica, dove il fattore del tempo si aggiunge a quello dello spazio.
        Sotto questi aspetti, Don Rosa è il meno disneyano fra gli artisti che lavorano per questa casa produttrice. Nel suo stile grafico manca quel tratto unico, semplice e lineare che contraddistingue i “fumetti” Disney in genere e li qualifica come tali, a vantaggio di un tratto molto più particolareggiato, in cui sul primo piano di Paperon de’ Paperoni si contano le singole piume del viso, le rughe sono disegnate alla perfezione, le figure di contorno smettono di essere tali e ferme sullo sfondo, per portare avanti, ognuna, una propria storia personale, un proprio dinamismo, per ritagliarsi ciascuna un suo momento di gloria nella vignetta. A titolo di esempio, riporto solo la seconda vignetta della seconda pagina del primo capitolo della Saga, in cui, mentre i protagonisti parlano, la vita di un volatile viene attentata da un lombrico. Immagine, quest’ultima, apparentemente insignificante ai fini della trama, ma che sottolinea l’importanza che Don Rosa attribuisce ad ogni singolo elemento presente nelle sue tavole, per cui un uccello che viene disegnato, non è semplicemente una figura di contorno, immortalata mentre vola, come parte integrante di un paesaggio fermo, ma qualcosa di più, cioè un mini-personaggio nella storia, che ha vita propria, e che crea dinamismo e movimento nella scena, proprio come certe comparse in un film.


IN PRINCIPIO FU CARL BARKS – BREVE ANALISI DEI CAPITOLI DELLA SAGA


        Colle Fosco, ragazzo, desolato come tante terre di Scozia... queste le prime parole pronunciate da Fergus de Paperoni, mentre accompagna il figlioletto Paperone, che ha ancora dieci anni, durante una qualunque giornata uggiosa del 1877, a visitare la “gloria passata” del Clan De’Paperoni, in un’umida e paludosa landa scozzese.  Quella gita al castello di famiglia significherà molto, emotivamente, per il piccolo Paperone, che deciderà, spronato proprio dai familiari, di ridare lustro alla sua famiglia.
        Questo primo capitolo della Saga è importante non solo per l’input che Paperone riceverà dalla sua mitica “numero uno”, la prima moneta guadagnata con fatica e sudore, ma anche per l’intuizione di dover emigrare in America, per cercare la fortuna che restituirà la dignità al suo buon nome.
        Inutile dilungarsi sui particolari. Basti ricordare che alcune storie di Barks sono state determinanti per descrivere gli eventi narrati in questa prima parte della Paper Dinastia.
        In particolare, Don Rosa si è avvalso della lettura delle seguenti storie: Paperino e il segreto del vecchio casatello (del 1948, pubblicata su Zio Paperone n. 70), per quanto riguarda i nomi di tutti gli antenati di Paperone; Zio Paperone e il re del fiume d’oro (pubblicata nel 1958, su Zio Paperone n. 95), per l’attività di venditore di legna; Zio Paperone e l’intruso invisibile (pubblicata nel 1963 su Zio Paperone n. 15), Zio Paperone e la Regina del Cotone (pubblicata nel 1955 su Zio Paperone n. 71), per la figura di Angus Manibuche, a mio avviso,  una delle più riuscite ed originali di tutta la storia, se è possibile stilarne una classifica.

        Si sente nell’aria che ci sono occasioni da prendere al volo... Paperone ha ancora tredici anni, in questo secondo capitolo della Saga, eppure ha già il fiuto per gli affari. Infatti sono questi i suoi primi pensieri, una volta toccato il suolo dell’affollatissima città americana di Louisville (tra l’altro, anche città natale dello stesso Don Rosa), giuntovi alla ricerca del suo zio paterno Angus Manibuche, noto per la sua inclinazione al gioco d’azzardo.
        Paperone riceverà importanti spunti per le sue avventure, la ricchezza che persegue, ma si imbatterà anche nei suoi “primi nemici”, accorgendosi che un uomo onesto, sulla propria strada, incontrerà sempre prima o poi qualcuno deciso a rovinargli la festa...
        In questo capitolo Don Rosa attinge, fra le altre, a queste fonti: Zio Paperone e la Regina del Cotone (del 1955, pubblicata su Zio Paperone n. 71), per quanto riguarda la sfida fra Angus Manibuche e Porcello Suinello e Zio Paperone e la gara sul fiume (1957, Zio Paperone n. 59), per gli avvenimenti sul Mississippi e la comparsa di alcuni personaggi (amici e nemici) assolutamente determinanti.

        Murdo, ecco uno che ha la stoffa del grande uomo... non immaginereste mai chi pronuncia questa frase, interloquendo con un amico, alla fine del terzo capitolo della Paper Dinastia, per descrivere il giovane Paperone. Credo sia meglio che freniate la vostra curiosità, perché la sorpresa è davvero dietro l’angolo...
        Questo capitolo della Saga è comunque determinante, per il futuro di Paperone, che decide di rimanere nelle praterie del Montana, in cui aveva prestato lavoro presso un ricco proprietario di bestiame, solo per due anni, in previsione di nuovi viaggi.
        Per raccontarci tutto questo, Don Rosa ha tratto informazioni da queste storie: Paperino e il mistero degli Incas (1949, Zio Paperone n. 88), per il riferimento alle uova quadrate; Zio Paperone monarca del bestiame (1967, Zio Paperone n. 71), per il riferimento ai fratelli fuorilegge Mc Viper.

        Dovrebbero costruire un monumento qui, da qualche parte! Una statua che dia il benvenuto a quanti arrivano qui, inseguendo il sogno di diventare qualcuno... Lo dice Paperone, nell’ultima pagina del quarto capitolo, quando su una nave che sta attraccando al porto di New York, si appresta ad imbarcarsi nuovamente su un altro bastimento che lo ricondurrà in Scozia, a trovare i familiari, che hanno invocato il suo aiuto per una grave crisi del Clan. In questo capitolo, Paperone incontra un personaggio che lo aiuterà davvero a diventare qualcuno, ma anche ad aggiungere alla sua lista di “rivali” un nome nuovo.
        Le storie di Barks cui Don Rosa si è ispirato sono queste: Zio Paperone e la disfida dei dollari (1952, pubblicata su Zio Paperone n. 71), in cui Paperone afferma di essere stato cercatore d’oro nel Montana; Zio Paperone e la cassa di rafano (1953, Zio Paperone n. 73), per i riferimenti alla dentiera d’oro, come cimelio di famiglia.

        Allora è il momento di partire! Mi sento dentro la certezza di essere destinato a qualcosa di grande. Non fallirò per sempre... ovviamente è sempre Paperone a pronunciare queste parole, in conclusione del quinto capitolo. Il giovane papero intravede nell’arcobaleno di Colle Fosco un presagio, che gli suggerisce che diventerà un cercatore d’oro. Ma Paperone sa che, pur con la tenacia che lo contraddistingue, il suo cammino non sarà facile.
        Don Rosa, fra le altre, si è ispirato a queste storie barksiane: Zio Paperone e il fiume d’oro (1958, pubblicata su Zio Paperone n. 95), in cui Paperone dichiara di provenire da una famiglia umile; Paperino e il segreto del vecchio castello (1948, Zio Paperone n. 70), in cui si rivela l’identità di molti antenati di Paperone.

         Nessuno può prendersi gioco di me... Paperone lo grida a gran voce, nel sesto capitolo, dopo essersi reso conto di essere stato truffato da colui che reputa come la persona più infida che abbia mai conosciuto.
        Non vi rivelo l’identità di questo personaggio. Si sappia solo che Paperone lo incontra in Sud Africa, luogo in cui si reca per cercare l’oro, e che va aggiunto al libro nero di Paperone, in quanto diventerà uno dei suoi più acerrimi nemici.
        Ecco le storie da cui ha attinto Don Rosa: Zio Paperone e la corsa all’oro (1964, pubblicata su Zio Paperone n. 17), nella quale Paperone racconta di aver partecipato alla corsa all’oro in Africa; Paperino e il torneo monetario (1956, Zio Paperone n. 75), per il personaggio “infido” che ha truffato Paperone.

         Il sogno mi sta forse dicendo di andare verso Nord? Verso le montagne rocciose?... siamo alla fine del settimo capitolo della Saga. Paperone ha vissuto esperienze non proprio gratificanti in Australia, dove si era recato per cercare l’oro, seguendo il presagio dell’arcobaleno di Colle Fosco. In questo capitolo Paperone non trova l’oro, ma fa la conoscenza di un personaggio che riesce ad aprirgli la mente, già orientata verso il pragmatismo e il materialismo che lo contraddistinguono, in modo tale da indirizzarlo, forse, verso la giusta direzione.
        Fra le altre storie di Barks, Don Rosa ha fatto affidamento su questa: Zio Paperone e la corsa all’oro (1964, Zio Paperone n. 17), dalla quale l’eclettico autore della Paper Dinastia ricava l’informazione relativa alla partecipazione di Paperone alla corsa all’oro in Australia.

        Se fosse davvero oro, tutto questo finirebbe. Sarei ricco, ma non sarei mai più lo stesso... Paperone è attanagliato da questo dubbio, nell’ultima pagina dell’ottavo capitolo, un momento prima di scoprire di avere l’opportunità di diventare uno dei paperi più ricchi dell’Alaska.
        Capitolo insolito, questo, non voglio svelare perché. Basti sapere solo che qui viene sfatato uno dei più grandi tabù disneyani.
        Ecco le storie cui Don Rosa si è ispirato: Zio Paperone e la stella del Polo (1953, pubblicata su Zio Paperone n. 77), per la figura di Doretta Doremi; Zio Paperone a nord dello Yukon (1965, pubblicata su Zio Paperone n. 24), per la cronologia delle vicende e l’introduzione del personaggio di Soapy Slick.

        Le highland scozzesi sono troppo ancorate al passato, mentre la mia vita è legata al futuro! In paesi lontani! Nel progresso... Siamo nel nono capitolo,  e Paperone ha finalmente consolidato la sua ricchezza. Può infatti tornare dalla sua famiglia in Scozia, da trionfatore, con la dignità sua e del clan finalmente riconquistata.
        Ma Paperone si rende conto di aver perso il senso, il costume, l’amore per le tradizioni della sua terra. Paperone... parti con le tue sorelle. Portale in America, verso una vita nuova! Con questa frase, sempre nello stesso capitolo, Fergus De Paperoni da l’ultimo incoraggiamento al suo figlio ormai già milionario, perché possa costruirsi e consolidare un vero impero, senza correre il rischio di vederlo sfumare a causa dell’invidia e dell’arretratezza della gente della sua patria natia. Questo è un capitolo di svolta nella Saga, perché Paperone  si appresta a diventare quello che tutti noi conosciamo...
        Don Rosa si è documentato grazie alle seguenti storie: Zio Paperone e la stella del Polo (del 1953, pubblicata su Zio Paperone n. 77), per le notizie che riguardano Doretta Doremi; Zio Paperone a nord dello Yukon (del 1965, pubblicata su Zio Paperone n. 24), per il riferimento a Soapy Slick.

        Gentile signora, meglio abituarsi a quell’“edificio bruttissimo”... perché resterà lì, per sempre! Paperone ha già le idee chiare, una volta giunto sulla costa ovest degli Stati Uniti, su quella baia abitata da così poche persone, per lo più contadini. Avete indovinato a quale”edificio bruttissimo” si riferisce il protagonista della Paper Dinastia, nell’ultima pagina del decimo capitolo?
        Anche questo capitolo è denso di avventure. Per narrarcele, Don Rosa ha tratto ispirazione da: Paperino e il nascondiglio nascosto (del 1959, pubblicata su Zio Paperone n. 57); Zio Paperone e i guai del progresso (1956, Zio Paperone n. 79); Paperino contro l’uomo d’oro (1952, Zio Paperone n. 32), per il nome dello Stato del Calisota.

        Sono il papero più ricco del Mondo! Io! Buuuaah-ah.ahhh! Così si conclude l’undicesimo capitolo della Saga. Paperone ha raggiunto il suo sogno: essere il papero più ricco del Mondo. Ma a che prezzo? Non voglio spingermi oltre.
        Sono queste le storie di Barks che hanno ispirato Keno Don Rosa: Paperino e il feticcio (1949, pubblicata su Zio Paperone n. 80), per i riferimenti allo stregone Matumbo, al Gongoro e, soprattutto, all’unica azione veramente disonesta di tutta l’esistenza di questo inarrestabile palmipede; Zio Paperone e un problema da nulla (1961, Zio Paperone n. 73), per il riferimento alla tribù africana dei Quack quack.

        Scommetto che è uno smidollato, una femminuccia viziata. E se ha tonnellate di denaro, le avrà ereditate, centesimo su centesimo... Nelle prime pagine di questo dodicesimo e ultimo capitolo della Saga, quattro personaggi si apprestano a conoscere di persona l’ormai celebre Paperon de Paperoni. Chi sono? Chi di loro pronuncia quella frase così acida nei confronti del Papero più ricco del Mondo?
        Tra le storie da cui Don Rosa ha tratto elementi per raccontarci questo epilogo della Saga, spicca questa: Zio Paperone e il Natale sul monte Orso (del 1947, pubblicata su Zio Paperone n. 75), la storia di esordio di Paperone.


PAPERON DE’ PAPERONI: UN PERSONAGGIO STORICO

        Un'altra caratteristica che fa della Paper Dinastia uno dei capolavori del fumetto Disney è il continuo inserimento della figura di Paperon de’ Paperoni all’interno di una cornice di eventi storici realmente accaduti, spesso con l’accostamento al protagonista di politici, banditi e affaristi che conosciamo oggi grazie al libro di Storia, e che grazie  a Don Rosa hanno potuto condividere qualche istante della loro vita confrontandosi (e a volte scontrandosi) con il Papero più ricco ed avventuroso del mondo.
        La tentazione di entrare nel dettaglio e rivelare notizie essenziali sull’argomento è per me forte, ma mi trattengo, consapevole che la maggior parte dei lettori di questo scritto preferirà indubbiamente scoprire volta per volta le incredibili sorprese che l’autore italo americano della Saga ci riserva nella sua opera.
        A titolo di esempio, mi limito a citare i seguenti eventi storici, che sono noti ai più: la partecipazione di Paperone alla corsa all’oro in Sud Africa, in particolare nel Rand, distretto aurifero presso Johannesburg; in quel contesto vengono citati i fatti storici della scoperta dell’oro nel Transvaal e dell’esistenza della gigantesca miniera di diamanti di Kimberly.
        Un altro evento realmente accaduto è la corsa all’oro in Australia, cui Paperone, ovviamente, partecipa. Don Rosa si ispira all’ormai già citata storia barksiana Zio Paperone e la corsa all’oro (1964, Zio Paperone n. 17), in cui l’anziano papero racconta delle sue avventure in Australia,con queste parole: Sfrecciai verso i giacimenti australiani di Kalgoorlie nel marsupio di un canguro saltellante!  La cittadina di Kalgoorlie è realmente esistita, ed è effettivamente stato un centro attivo nell’Ottocento per quanto riguarda la corsa all’oro nella terra dei Koala.
        Non si possono non citare, in questa sede, gli episodi che narrano il periodo in cui Paperone partecipa alla corsa all’oro nel Klondike: queste vicende, a tutt’oggi, forse sono le più conosciute dai lettori dei fumetti disneyani, per quanto riguarda la vita avventurosa di Paperone.
        In particolare l’inserimento nell’ottavo capitolo della Saga di un personaggio storico piuttosto famoso (di cui non voglio rivelare l’identità), rende queste pagine dell’opera di Don Rosa tra le meglio ricostruite, storicamente parlando. Senza contare la cura minuziosa con cui l’autore si appresta a dipingere la vita quotidiana a Dawson, città esistente nell’Alaska del Sud e fiorente insediamento commerciale, sviluppatosi proprio negli ultimi anni dell’Ottocento.
        Don Rosa si documenta anche sull’evento realmente accaduto della rivendicazione della ricchissima miniera di rame della Collina dell’Anaconda, il cui proprietario era Marcus Daly, da parte di un cercatore sulla base della Legge della sommità. Don Rosa narra anche dell’introduzione della luce elettrica a New York, nel 1882.
        Ci sono innumerevoli altri episodi in cui Don Rosa mischia fatti storici alla pura fantasia, non meno importanti di questi; tuttavia ritengo che quelli citati siano anche i più conosciuti.


PAPERON DE’ PAPERONI, METAFORA DI VITA VISSUTA E DEDIZIONE, SIMBOLO DEL SOGNO AMERICANO:  LE RAGIONI DELLA FORTUNA DELLA PAPER DINASTIA

        Paperon de’ Paperoni non è, quindi, un semplice personaggio dei fumetti, per quanto più elaborato ed originale degli altri. Paperone è l’esasperazione di quella formula racchiusa in un  passo della Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, emessa nel 1776, che è la ricerca della felicità (the pursuit of happiness). Paperon de’ Paperoni insegue con determinazione il suo sogno, quello di ridare lustro al suo Clan, ormai decaduto da molti anni. Paperone non si arrende di fronte a niente e nessuno, pur inciampando più di una volta in ostacoli di fronte ai quali qualunque altro papero che potesse considerarsi temerario sarebbe recesso.
        E dei numerosi personaggi della Disney, in cui forse tutti noi ci riconosciamo almeno in minima parte (soprattutto Paperino), Paperone è quello meno comune, il più eroico, quello dalla vita più movimentata. Eppure rappresenta in pieno lo spirito del lavoratore, del risparmiatore, di colui che è sempre pronto al sacrificio e alla rinuncia pur di raggiungere il suo obiettivo. Non è un caso, infatti, se quando gli si domandano informazioni sul suo portafortuna, la celebre “numero uno”, Paperone inorridisca e vada su tutte le furie, sottolineando il fatto che non si tratta di un “portafortuna”, bensì di un’ispirazione.
        Barks, forse volontariamente, o forse no, ha dato vita ad un personaggio che negli anni è diventato la bandiera del liberalismo americano, dello sforzo, del duro lavoro, per ricercare la felicità, diventando simbolo di un capitalismo onesto, ormai “merce assai rara”.
        Per questo motivo la Paper Dinastia ha avuto così fortuna: Don Rosa, grazie alla sua genialità ed eccletticità, ha saputo estrapolare queste caratteristiche dal Paperone barksiano, spiegandoci come abbia fatto a diventare l’emblema di questo stile di vita.
        Ed anche chi è sempre stato titubante nel riconoscere l’originalità dell’universo disneyano, non può non ammettere, anche sotto quest’aspetto, che, leggendo questa biografia del papero più ricco del mondo, si è di fronte ad un vero capolavoro della letteratura mondiale, un perfetto connubio tra arte, storia e sociologia, tenute insieme da un collante molto potente: la fantasia.


Paperon de' Paperoni, il papero più avventuroso del mondo.



I disegni sono dell'autore.



[1] D’ora in avanti userò alternativamente le due denominazioni italiane.
[2] L’accostamento di questi due termini antitetici è voluto, e la sua ragione risulterà più chiara nel corso di questo scritto.
[3] Talvolta è impresa ardua per gli appassionati riuscire ad individuare la scritta D.U.C.K. nella prima tavola di ogni capitolo della Saga.

22 marzo 2007

X/1999

ANIME:
Le puntate dell’anime sono 24 più la numero #00 che può considerarsi una puntata a tutti gli effetti. L’anime, nonché manga, è firmato dalle Clamp e probabilmente rappresenta la loro opera più riuscita. La serie risulta parecchio drammatica. Appartiene alla categoria shōjo, seppur l’opera non ne sia un esempio tipico considerando le atmosfere fataliste e gotiche e anche tenendo bene a mente che per le Clamp non esiste il lieto fine.

Trama:
La fine del mondo è vicina e i Draghi della Terra (I sette messaggeri) dovranno combattere contro i Draghi del Cielo (I sette sigilli). Sul predestinato grava l’onere di stabilire il destino della Terra: dovrà decidere se salvare il pianeta e farlo distruggere dagli uomini (schieramento dei Draghi del Cielo) o distruggerlo per una nuova rinascita (schieramento dei Draghi della Terra). Conservazione o Rinnovamento, è questo il dilemma.
A complicare oltremodo questa scelta saranno il ritrovamento della Spada Sacra, arma che deciderà le sorti della Terra, e i sogni misteriosi della sognatrice. In attesa della battaglia decisiva, verranno radunati i Draghi della Terra e i Draghi del Cielo ed entrambi sapranno già cosa è destinato a compiere il protagonista, il quale dal canto suo, sarà proprio l’ultimo ad esserne informato una volta ritornato a Tokyo e aver incontrato i due amici di infanzia. La storia è infarcita di sentimenti ed emozioni tipici degli esseri umani: dall’indifferenza e durezza all’amore, dalla gelosia alla fedeltà, arrivando sistematicamente alla perdita.

Personaggi:
Kamui Shiro è il protagonista della serie, il predestinato. E’ un ragazzo parecchio chiuso, freddo e distante anche dai suoi amici di infanzia, ma tutto questo non è altro che una semplice facciata perché in realtà il suo intento è quello di non far soffrire nessuno. La sua fragilità e impotenza si mostrano perennemente nei confronti del suo carissimo Fuuma. Soffre moltissimo per il destino che la vita ha riservato a lui e ai suoi amici.


Fuuma Mono è il co-protagonista, una sorta di alter ego di Kamui, la sua stella gemella. Suo carissimo amico di infanzia, si schiererà con la parte avversaria, nonostante in passato gli avesse promesso di proteggerlo ad ogni costo. Ha un carattere senza dubbio più deciso di Kamui, è misterioso, legge nella mente e non esiterà a uccidere pur di compiere la sua missione.


Kotori Mono è la sorella minore di Fuuma e amica di Kamui, del quale è innamorata. E’ una persona molto fragile, anche fisicamente. A primo impatto sembrerebbe avere un ruolo marginale, ma è con la sua morte che Kamui si sblocca. E’ l’unica sostenitrice del futuro ancora tutto da scrivere.


Hinoto, impropriamente chiamata principessa, comunica telepaticamente. E’ una veggente e nei suoi sogni vede un futuro di distruzione. E’ per questo che radunerà i Draghi del Cielo. Dovrebbe rappresentare la classica veggente saggia, buona e animata da propositi per la collettività, ma in realtà non è tutto oro quello che luccica.


Kanoe, donna molto seducente, è la sorella minore di Hinoto. Si insinua nei sogni di Kamui per mezzo della sorella e gli svela che ciò che lui vede in quei sogni è solo quello che gli vuole far credere Hinoto. Il ragazzo, infatti, può scegliere. Sarà colei che radunerà attorno a sé i Draghi della Terra.


Sorata Arisugawa, un giovane monaco, sarà il primo a riuscire a parlare a Kamui. Il suo destino è già stato scritto: proteggerà il predestinato ma morirà per la donna che ha scelto di amare. E’ un ragazzo molto allegro, solare e divertente.


Arashi Kishu, giovane ragazza con un’adolescenza triste, ha il compito di seguire Kamui secondo le direttive imposte da Hinoto e il ragazzo mal sopporta questa situazione. Riservata e un po’ distante, finirà poi per innamorarsi di Sorata.


Karen Kasumi è uno di quei personaggi che compare poco e quasi sempre in lingerie per motivi di lavoro. Ha avuto un’adolescenza molto triste per i suoi poteri. Il suo compito principale è quello di salvare la zia di Kamui cosichè possa partorire la Spada Sacra.


Seiichiro Aoki è l’unico ad essere sposato e avere una famiglia. Ha un ruolo un po’ meno in evidenza rispetto agli altri probabilmente perché non si sa molto della sua vita privata. Ha un ottimo rapporto con Karen, basato sull’amicizia e stima reciproca.


Subaru Sumeragi è, tra i sette sigilli, il personaggio più interessante e riesce ad entrare in sintonia con Kamui per disgrazie simili. Non ha chiuso col passato e, infatti, gli pesa ancora molto la morte della sorella Hokuto avvenuta per mano di quello che una volta era un suo caro amico, Seishiro. Il suo scopo non è comune ai Draghi del Cielo, è piuttosto quello di morire per mano dell’amico.


Seishiro Sakurazuka è un messaggero che non prova pietà per nulla. Ex amico di Subaru, è il suo avversario fisso. E’ colui che alcuni anni prima uccise la sorella di Subaru, Hokuto, la quale poco prima di spirare fece in tempo a lanciargli una maledizione: qualora avesse ucciso suo fratello Subaru, Seishiro avrebbe ucciso anche se stesso. Pur sapendo ciò, nell’ultimo scontro tra i due, Seishiro decide di colpire l’amico e di conseguenza, morire per sua mano.


Yuzuriha Nekoi è una ragazzina solare, sensibile e un po’ ingenua, probabilmente perché molto buona di cuore. E’ uno dei sette sigilli ed è costantemente accompagnata dal suo fedele Inuki. Diventerà amica e frequenterà Kusanagi, non sapendo ancora della sua appartenenza ai sette messaggeri.


Kusanagi Shiyu è uno dei pochi a vedere il cane di Yuzuriha e dal momento in cui decide di frequentare la ragazza, prende anche la decisione di proteggerla, senza però andare contro il suo essere un Drago della Terra.


Satsuki Yatoji è dotata di una particolare predisposizione per la tecnologia ed è per questo che Kanoe le fa costruire “La Bestia”, uno speciale computer che la ragazza userà come propria arma e fonte di informazioni. Nonostante sia parecchio fredda, non si può dire che non sia affezionata a Yuto.


Nataku è un essere asessuato geneticamente manipolato, un essere umano che possiede un corpo artificiale. Il nome è quello di una divinità senza spirito e ben gli confà poiché sprovvisto di sentimenti ed emozioni. Sarà colui che ruberà la Spada Sacra per volere di Fuuma e si voterà a lui.


Yuto Kigai è uno dei sette messaggeri e sembrerebbe avere una relazione con Kanoe. Ha dei modi molto educati in perfetta linea con il suo aspetto, talvolta sembrano un po’ troppo snob. Ha un buon rapporto con Satsuki.


Kakyo Kuduki ha un ruolo importantissimo ed è colui che narra l’intera storia. E’ il sognatore dei Draghi della Terra e riuscirà ad aiutare Kotori a mettersi in contatto con Kamui nonostante la morte. Soffre maledettamente per il futuro che riesce a prevedere ma non cambiare, come dimostrano le sue parole per la donna che amava, Hokuto, che non è riuscito a salvare.



Curiosità
:

  • Subaru, Seichiro e Hokuto fanno parte di un altro manga delle Clamp, Tokyo Babylon;

  • la fine dell’anime non rispecchia quello del manga, poiché in quel periodo non si sapeva come la storia sarebbe stata conclusa, quindi il finale è costruito.


Impressioni:
Anche in questo anime forte è la presenza di piume e ali, come già dimostra la stessa sigla di apertura e quella di chiusura. Bellissimi i drappeggi con i nastri color porpora. I colori sono spesso cupi, specialmente nelle scene di battaglia. La gradazione predominante è il rosso, d’altronde il sangue è uno dei protagonisti indiscussi della storia. Ottimi i disegni delle Spade Sacre, degli ingranaggi, di Inuki (il cane di Yuzuriha).
Una nota meritevole, per quanto riguarda i disegni ma soprattutto per il senso di angoscia che suscita, va al sogno premonitore sul futuro della Terra propinatoci spesso e volentieri nel susseguirsi della storia, come a voler imprimere nella nostra mente - e perché no, anche nel cuore – cosa accadrà (o, forse, potrà accadere?).
Benché la storia lasci un amaro in bocca che stenta a scomparire, l’anime dovrebbe essere visto ugualmente. Storia struggente, riflessiva per quanto irreale, capace di emozionare. Non si parla della solita battaglia tra bene e male perché fondamentalmente questa dicotomia non è valida per X/1999. Il Bene e il Male non sono entità distinte, di conseguenza è molto difficile stabilire chi sia cattivo e chi buono. Si potrebbe, infatti, ragionevolmente pensare che per i sette messaggeri, i cattivi siano i sette sigilli, e viceversa. Ma non è così e lo dimostrano gli stessi personaggi. E’ probabile che il bene e il male non siano nemmeno contemplati nella storia come entità opposte e in perenne battaglia. Forse tutto sta nel guardare da una terza prospettiva, la nostra, quella di spettatori neutrali senza posizioni da difendere, senza un destino che ci ha imposto doveri di sigilli o si messaggeri, perché noi non siamo Draghi. Noi siamo spettatori che si emozionano, che prendono parte ai dolori e alle gioie dei personaggi. Sono emozioni che comprendiamo perché, magari, ci rievocano momenti lontani o, più semplicemente, ci lasciamo trasportare dalla scena, ma non diventiamo mai tutt’uno con quel personaggio e anzi sarebbe dannoso se lo facessimo.
Nell’anime la fanno da padrone soprattutto i sentimenti: molto sentito è il tema dell’amicizia, come si può capire leggendo la rapida descrizione dei personaggi. I turbamenti sono rappresentati alla perfezione e coinvolgono parecchio, si può dire siano realistici. Anche le storie personali dei sette sigilli e dei sette messaggeri riescono a colpire perché sono inaspettate e la stessa cosa vale per certi triangoli-coppie che prendono sempre più forma man mano che si procede nella visione di X/1999.
Il finale, come già detto, è stato confezionato ad hoc per l’anime. Probabilmente è l’unica vera pecca di tutta la serie: è un po’ troppo veloce rispetto a tutta la storia, che procede, invece, in maniera molto più equilibrata. Meglio vederlo come un finale a libera interpretazione anche perché si tratta di qualcosa di mediato e allo stesso tempo di fantasioso: si potrebbe dire senza sbagliare che gli sceneggiatori hanno aguzzato l’ingegno. E’ la classica conclusione che cambia a seconda degli occhi di chi guarda, nondimeno l’anime rimane comunque un ottimo lavoro.


OAV:
Il film si apre con uno sfondo nero e milioni di petali di ciliegio. I primi due minuti segnano già l’ignaro spettatore: le immagini sono forti e sanguinarie. Kamui vede la madre partorire la Spada Sacra con tanto di simboli ebraici e stella di Davide. Dopo questo, la madre lo esorta ad andare a Tokyo dove si sarebbe compiuto il suo destino, indi si spappola in mille pezzi. Pozza di sangue. Segue un’altra scena, Kotori, in sogno, vede un Kamui con ali bianche e con un sorriso non molto incoraggiante e un altro Kamui con ali nere e sguardo mesto, entrambi tengono in mano la Terra. Tutto questo non è altro che il prologo.
Kamui è tornato a Tokyo e tutti i personaggi elencati nell’anime si accorgono della sua presenza. E inizia la storia, con alcune modifiche rispetto all’anime.
Prima di tutto compare, quasi subito, un personaggio appositamente creato nel film e cioè Shougo Asagi, un Drago della Terra capace di manipolare l’acqua e che risulta da subito molto antipatico perché eccessivamente sicuro di sé. Kamui dimostra già più poteri e consapevolezza della sua forza. Subaru muore all’ottavo minuto quando, invece, nell’anime è uno dei pochi sopravvissuti. Kanoe diventa una tessitrice di sogni, al posto di Kakyo che non è previsto nel film.
Altra differenza riguarda le Spade Sacre: secondo il film Kamui la riceve dalla madre, Fuuma dalla sorella. Nell’anime la storia è molto diversa: è vero che la madre di Kamui partorisce la Spada Sacra, ma non essendo il ragazzo ancora pronto, viene custodita dal padre di Fuuma. La spada, però, viene rubata da Nataku e consegnata poi a Fuuma. Sarà poi la zia di Kamui a partorire l’altra Spada Sacra per il nipote.
Una nota sui disegni: sono più stilizzati, un po’ appuntiti e alcuni personaggi sono leggermente diversi nei tratti e nell’abbigliamento.
Se nell’anime il sangue è elemento principale, nell’oav lo è ancora di più insieme agli spappolamenti e teste decapitate. La storia è più o meno simile, cambiano le sfumature ma nel complesso si può dire che sia una buona rappresentazione di tutta la serie in chiave molto più pessimistica: se ne salverà solo uno.



Scritto da mulaky

19 marzo 2007

JOHNNY BRAVO

QUANDO IL GEL OFFUSCA I NEURONI.

Fisico palestrato, occhiali da sole da macho, capelli biondi impomatati: le ragazze dovrebbero impazzire al suo passaggio. E invece no... Semplicemente perché lui è Johnny Bravo!
Questo simpatico personaggio è diverso dai comuni ragazzi suoi coetanei: solo lui, ad esempio, si può spruzzare addosso “ormoni di maiale” per aumentare il suo potere di attrazione nei confronti del gentil sesso, non appena qualche graziosa donzella ne capta il profumo! “Sono queste le cose che mi distinguono da un ragazzo con un’intelligenza normale!”, chioserebbe giulivo gesticolando animatamente, come suo solito, per mettersi al centro dell’attenzione.
Per il nostro eroe, narcisista ed egocentrico, il rimorchio è una ragione di vita, il gel è qualcosa di fondamentale, la pettinatura qualcosa di impeccabile, gli occhiali da sole non si tolgono neppure per dormire… Inoltre, il suo è uno stile tutto personale, fatto di approcci fragorosi, frasi esilaranti ed inevitabili schiaffoni ricevuti dalla bella di turno.
Ne consegue che, dopo quattro serie, l’unica donna della sua vita rimane la sua adorata “Mama”, la quale lo tratta ancora come se andasse all’asilo e lo riempie di attenzioni soffocanti, da tipica genitrice apprensiva.
Le situazioni in cui si caccia Johnny sono surreali e molto, molto comiche: dalla scuola di tacchinaggio con Luke Perry (fra i protagonisti di Beverly Hills, ricordate?) ad un’assurda avventura in coabitazione con la banda di Scooby Doo (e lui ovviamente ci proverà con Daphne…); dalla missione lunare con gli scimpanzé a tutte le scorribande in terre lontane: Irlanda, Australia, Scandinavia… Ed ovunque vada seminerà sempre scompiglio e si renderà ridicolo agli occhi delle pulzelle locali.
Una delle particolarità di questa serie animata è la gran quantità di attori reali che hanno un cameo nei vari episodi; lo stesso Seth MacFarlane, uno degli sceneggiatori di Johnny Bravo, riprenderà questa trovata ne “I Griffin”, la sua serie di maggior successo. Ad esempio, il sindaco della città non è altro che Adam West (protagonista della serie ‘Batman’, molto popolare in America negli anni ’60), mentre come personaggi femminili ritroviamo Jessica Biel (“Settimo Cielo”) e Farrah Fawcett (“Charlie’s Angels”, la serie). Un episodio molto simpatico è quello in cui il nostro protagonista dalla folta chioma bionda ha a che fare con una maschera raffigurante il produttore stesso del cartoon, Joe Barbera (proprio colui che, in coppia con Bill Hanna, ha dato vita a note serie di cartoni animati: i Flinstones, i Jetsons, l’Orso Yoghi…), laddove è quasi scontata l’esclamazione di Johnny :”Joe Barbera chi!?”

JOHNNY COME FONZIE. O NO?

Johnny ha una visione del mondo esterno molto semplice, secondo la quale ogni luogo è adatto per accalappiare ragazze: il centro commerciale, il parco, la palestra, l’ufficio tributi… e l’immancabile bar “Pop’s”. Il modo di portare i capelli e la maglietta nera (che poco dista da un famoso giubbotto di pelle dello stesso colore), nonché il suo essere tanto farfallone, ai nostri occhi lo fanno sembrare un moderno Fonzie, ma meno fortunato ed intelligente. E così come il protagonista di Happy Days ha la sua base nel locale “Arnold’s”, Johnny ha il suo headquarter nel bar “Pop’s”, il posto adatto per riempirsi di birra analcolica e nachos. La ‘trascurabile’ differenza è che Arnold era uno dei sudditi di Fonzie, mentre per Pop Johnny è un “adorabile ritardato”, sulla cui pelle vale la pena scommettere. Spesso sarà infatti lui, nelle vesti di disinteressato fratellone, a spingere Johnny a compiere le sue proverbiali sciocchezze.

GLI AMICI

Carl e Susy sono i vicini di casa dei Bravo e, seppur per ragioni diametralmente opposte, per Johnny rappresentano ciò che Ned Flander è per Homer Simpson: un facile bersaglio da prendere in giro o, se preferite, come un topo nei pantaloni… Infatti, lui li ritiene semplicemente insopportabili!
Susy è una bambina delle elementari, che vede nel suo amico tutto muscoli e zero materia grigia il fidanzato ideale. E, nonostante lei riesca in tutto ciò che lui tenta ma fallisce, le dinamiche della “coppia” sono sempre le stesse: lei che corre dietro a lui pregandolo di venire alla sua festa di compleanno piena di marmocchi, lui che risponde: “Neanche per sogno! Ripassa quando sarai al liceo!”.
Le storie assumono invece un aspetto molto più interessante se assieme a Johnny c’è Carl, il tipico ragazzo nerd dentro e fuori, quello che negli anni Ottanta a Milano sarebbe stato il classicou“Gino”, come d’uso fra i paninari…. Ovvero, un essere senza speranza! Però il duo Carl-Johnny è spesso e volentieri esplosiva ed autrice delle gag più esilaranti. Infatti, essendo così diversi e ragionando su basi completamente agli antipodi (mente focalizzata solo su tecnologia e dinosauri per Carl; su ragazze, pizza e nachos per Johnny), la trama si basa sull’effetto “strana coppia” per creare situazioni paradossali, assurde, al limite della demenzialità.
Ne scaturiscono quindi puntate memorabili, in cui i due amici, con un abilità degna di Mister Magoo, ne combinano di ogni, prima di essere resi inoffensivi da qualcuno. Quasi sempre con metodi cruenti, tra l'altro.
"Oh, mama!"

15 marzo 2007

Hentai - Prima parte

Lemon by DeeproadQuando i manga erotici cominciarono a diffondersi nelle edicole del nostro paese avevo circa sedici anni. In passato mi era capitato di leggere qualche fumetto erotico occidentale, ma l'esperienza, devo confessarlo, non era stata delle più gratificanti: pornografia esplicita, dettagli raccapriccianti e racconti discretamente disgustosi, oltre che ripetitivi e monotoni, mi fecero giungere alla conclusione che, fatte le dovute eccezioni per quel che concerne rare opere di un certo spessore, la maggior parte della produzione occidentale tendesse su questo versante. Vista l'esperienza essenzialmente negativa non ebbi mai la curiosità di stabilire se le cose stessero effettivamente così o se magari non fossi stato io ad essere particolarmente sfortunato in termini di scelte. Una sera però ebbi modo di vedere in TV un servizio dedicato alla moda dilagante dei manga erotici e decisi quindi di fare ancora un tentativo. D'altronde l'idea di poter vedere quelle ragazze dalle fattezze dolci e surreali, che per tanti anni avevano popolato le mie fantasie infantili, finalmente in atteggiamenti esplicitamente "hot" era un pensiero davvero troppo allettante perché potessi accantonarlo con tanta facilità. La mattina seguente, prima di andare a scuola, mi fermai davanti a un'edicola nelle immediate vicinanze del mio liceo. Mi guardai intorno con circospezione e finalmente decisi di avvicinarmi alla sezione per adulti. Subito mi cadde l'occhio sul volto di una giovane infermiera dagli occhi languidi e dal seno prorompente. Feci così la mia scelta. Afferrai il volumetto in fretta e furia e acquistai il primo numero de La clinica dell'amore. Nei mesi che seguirono feci una vera e propria scorpacciata di manga erotici, dal momento che le produzioni sembravano essere in continua espansione. Questo mi diede modo nel bene e nel male di scoprire, o forse sarebbe meglio dire di mettere a fuoco, alcuni aspetti dell'erotismo per me completamente nuovi, talvolta intriganti ed eccitanti, talvolta oscuri e lievemente traumatici. In ogni caso ritengo sia stata un'esperienza in grado di arricchire la mia consapevolezza sessuale, nonché le mie perversioni ancora latenti.

AV Angel by DeeproadAll'epoca la migliore rivista specializzata nel settore era senza alcun dubbio Lemon, che ogni mese presentava cinque o sei differenti storie legate al meglio della produzione erotica orientale a fumetti. Fu grazie a quella rivista che mi resi conto di quanto l'erotismo giapponese sapesse essere realmente intriso di forti emozioni e solo raramente fine a sè stesso. Lemon mi fece conoscere Una gatta da sogno, opera di tale Ebi Fry (evidentemente uno pseudonimo) che narrava le vicende di un essere per metà donna e per metà gatto. Storie brevi ed autoconclusive che si muovevano con disinvoltura nell'ambito di differenti registri emotivi: c'erano i momenti ironici e spensierati, come anche quelli malinconici e drammatici. Il tutto condito da un erotismo dolce e avvolgente. Quello stesso erotismo che, sebbene in misura meno esplicita, avrei ritrovato circa un anno dopo nella prima opera di Masakazu Katsura pubblicata in Italia, Video Girl Ai. In sostanza fu amore a prima lettura. Di contro Lemon pubblicò anche AV Angel di Yoshimasa Watanabe, uno dei più celebri autori di manga per adulti del Sol Levante. AV Angel era caratterizzato da un tratto particolarmente soffice, al punto di rendere i corpi femminili tanto più attraenti quanto più in evidente contrasto con quella sottile violenza che invece scaturiva dalle singole storie narrate. Tutti i personaggi femminili finivano per ricoprire l'ingrato ruolo di vittima "innocente" della perversione maschile. Il sesso era sempre vissuto da un lato (quello maschile) come forma di continua prevaricazione fisica e psicologica, consumata preferibilmente in contesti quotidiani e rispettabili, dall'altro (quello femminile) come una sorta di consapevole rassegnazione al proprio ruolo di oggetto sessuale. Questa visione della sessualità peraltro ricorre di frequente nell'immaginario erotico orientale, diciamo pure nella maggior parte dei casi, probabilmente in qualità di riflesso liberatorio alle costrizioni sociali entro le quali il giapponese medio si trova costretto nell'ambito della quotidianità. Parallelamente una nota casa editrice italiana, la Play Press, si accingeva alla pubblicazione di un'opera dalle sfumature horror dal titolo Beast, altrimenti conosciuto come Urotsukidoji di Toshio Maeda. Un racconto sconvolgente, a tratti anche disgustoso, capace di alternare momenti di violenza perversa a momenti di malinconica dolcezza. Fu anche uno dei primi manga erotici (sebbene mi renda conto del fatto che definirlo semplicemente in questo modo possa apparire alquanto riduttivo) pubblicati in Italia a non contenere storielle autoconclusive, ma a seguire una trama discretamente elaborata. In un primo momento Urotsukidoji non mi convinse molto a causa di un tratto decisamente realistico e fuori dai soliti canoni nipponici, ma col tempo rimasi affascinato dalle atmosfere crude, sporche e totalmente prive di qualsiasi forma di ipocrisia perbenista che quel fumetto era in grado di dipingere.

Cream Lemon by DeeproadIn quegli anni la Play Pess puntò molto sulla pubblicazione di manga erotici di un certo livello (ricordo tra gli altri My My My, Gotaman e Cream Lemon, uno dei primi a trattare argomenti più controversi come l'incesto o la pedofilia, sebbene in misura piuttosto marginale), ma sfortunatamente fu solo una breve parentesi. Ben presto quasi tutte le testate del settore furono costrette a chiudere i battenti in seguito a un progressivo e inesorabile calo delle vendite. Fu la classica moda passeggera diciamo. Fin dagli albori del fenomeno nella mentalità dell'italiano medio il manga erotico venne relegato al ruolo di giornaletto per maniaci depravati dalla sessualità deviata (e probabilmente non fu un caso che io ne divenni fruitore). A tale declino contribuirono sicuramente le pubblicazioni illegali che all'epoca (come anche oggi) pullulavano nelle edicole di tutto il paese (sul genere Erotic Japan, tanto per fare un esempio). Fantomatiche case editrici (talvolta pressochè inesistenti) cominciarono a distribuire, senza ovviamente preoccuparsi di pagare i relativi diritti, opere scadenti con tanto di testi riscritti in chiave pornografica e organi genitali ridisegnati per l'occasione in perfetto stile occidentale, per la gioia di tutti gli smanettoni incalliti. Il fenomeno divenne di proporzioni tali da riuscire in breve a far collassare il mercato ufficiale, che invano si prodigava nell'infruttuoso tentativo di proporre opere di un certo spessore. L'unico fumetto che riuscì ad avere un discreto seguito fu La clinica dell'amore, un manga demenziale di chiara impronta fetish che in un arco di tempo relativamente breve diede alle stampe due intere serie (a dimostrazione dunque del successo riscosso). Ma rimase purtroppo un caso isolato. Molti anni dopo la Star Comics tentò di ripercorrere timidamente le orme della Play Press, senza però ottenere grandi riscontri in termini di vendite. Vano anche il tentativo della Kabuki Publishing di far conoscere in Italia il bellissimo Angel di U-Jin, di cui fortunatamente conservo un'edizione originale da collezione. Credo in ogni caso che il manga erotico in Italia abbia rappresentato una sorta di trampolino di lancio per quel che concerne la diffusione del fumetto giapponese in generale, sebbene in un primo momento alcune delle più importanti case editrici del settore, Star Comics in primis, si affannassero continuamente a sostenere la loro più assoluta estraneità al genere in questione. Eppure io che fin dall'inizio l'ho vissuta in prima persona sono convinto che questa prima intensa ondata, seppur breve, sia riuscita in qualche modo a creare una sorta di varco che ha consentito l'ingresso nel nostro paese di numerosi autori d'altri generi le cui opere diversamente non avrebbero visto la luce per moltissimi anni ancora.

La clinica dell'amore     Juliet   Gotaman

Argomenti correlati: Hentai - Seconda parte






Scritto da Deeproad

13 marzo 2007

Mi chiamo Dog, Dylan Dog

Una introduzione qualsiasi a Dylan Dog




C'è un italiano, a Londra, uno come tanti, che ha uno snack bar (uno come tanti). Non è a Piccadilly Circus, non è di fronte alla Tate Gallery, è in una strada come tante, eppure negli ultimi due decenni ha fatto discreti affari grazie soprattutto ai turisti. Turisti italiani, per la precisione; giovani perlopiù.
Il locale si chiama Bruno’s cafe (eccolo), e il suo indirizzo è 7 Craven road, W2 3BP London. Chi ha familiarità con l’oggetto (di culto) di cui stiamo per trattare, avrà già capito dove voglio andare a parare. Chi invece crede che Dylan Dog sia la marca di un cibo per cani, si chiederà se nei bar inglesi vendano alimenti per animali.
Il fatto è che quando Tiziano Sclavi, a metà degli anni Ottanta, stava creando il personaggio che l’avrebbe reso fin troppo celebre per i suoi gusti (e per le sue fobie), si trovò naturalmente a dovergli dare un tetto sotto cui vivere e un luogo in cui ambientare le sue vicende. È cosa nota che l’antenato diretto di Dylan Dog sia Francesco Dellamorte, protagonista di uno dei primi romanzi di Sclavi, Dellamorte Dellamore (rimasto inedito fino al 1992 e portato al cinema da Michele Soavi nel 1994); Dellamorte è il guardiano del cimitero di un paese della Bassa lombarda (terra natia dello stesso autore), ma Dylan Dog è un tipo di personaggio che richiedeva un’ambientazione più classica e al tempo stesso più grande, di più ampio respiro e più frastornante. La testata non cerca certo di spacciare per veri zombi, vampiri e licantropi, anzi i primi ad essere scettici sono gli stessi protagonisti (Dylan è scettico verso i clienti, Bloch lo è verso Dylan, Groucho non si pone neanche il problema), però localizzare un’intera serie di orrore e fantasia nella provincia italiana avrebbe probabilmente fatto saltare quell’alone di dubbio e di mistero che un’ambientazione straniera avrebbe potuto assicurare più agevolmente. Così si optò per Londra, grande metropoli, città misteriosa per eccellenza (vertice del triangolo di magia nera con Torino e San Francisco), già residenza di altri celebri indagatori, e nebbiosa e fluviale, proprio come la Bassa. Ma Sclavi non voleva un indirizzo reale – come il 221/b di Baker Street, domicilio di Sherlock Holmes – così si inventò il nome della strada omaggiando il regista di Nightmare Wes Craven, senza tuttavia sapere che di Craven Road, a Londra, ne esistevano ben quattro (e in una di queste, la più centrale, si trova il bar di cui sopra, meta di pellegrinaggio dei dylaniani di passaggio a Londra).
Questa dunque l’origine dell’indirizzo più famoso del fumetto italiano, che d’altronde non è affatto elemento marginale, se è vero che il primo episodio della serie (L’alba dei morti viventi, n.1, di Sclavi/Stano, ottobre 1986) si apre, dopo un classico prologo da film horror, con questa tavola prima ancora di mostrare il protagonista e i suoi comprimari. E l’importanza di aprire evidenziando la strada sta ad esempio, oltre che nel raccordo di posizione, tipica apertura dei racconti di genere, nel mostrare uno dei tratti somatici della creatura di Sclavi: la citazione (cinema in primis, ma non solo).



La tavola successiva si apre con un classico della serie, una delle vignette che più saranno riproposte nelle trecento e più storie pubblicate, quella vignetta che probabilmente Sclavi nella sceneggiatura avrà descritto così:
“Groucho socchiude (anzi, soapre) la porta e si affaccia verso il lettore in PP (Groucho, non il lettore).
Groucho: Sì?
Segue, visto che si tratta del primo numero, descrizione di Groucho, ma forse sarebbe del tutto superflua. Basta il nome.
Groucho è infatti identico al suo celebre omonimo, Groucho Marx, il più grande comico della storia dello spettacolo. Alle volte cerca anche di dare a intendere di trattarsi proprio dell’attore, lancia qualche allusione (“Ho lavorato al cinema. Probabilmente avrete sentito il mio nome: Pinco Pallino”) specialmente nelle prime storie, ma la sua identità resta sempre nel dubbio. Ha lo stesso volto, la stessa fisicità, lo stesso portamento, la stessa tempra e lo stesso carattere dell’attore da cui prende anche il nome. E la stessa funzione.
Groucho è il caos. È la voglia anarchica di sovvertire la banalità del mondo delle convenzioni. Una delle tante facce di Sclavi, insomma. È la frustrazione delle aspettative (proprio come lo erano i Marx) dei clienti che si aspettano serietà; è una scheggia impazzita; è l’elemento sovversivo che fa saltare in aria il meccanismo di standardizzazione sociale.
Groucho è l’assistente di Dylan, anzi, “assistente, amico e rompiscatole personale”, come spiega lo stesso Dylan alla malcapitata di turno. Ed è il caos, dicevo. È il contrappunto alla follia dell’ordinario, è il modo attraverso cui Sclavi dimostra che l’uomo normale oggi è una specie di mostruosità, un abominio della società, è a tutti gli effetti un alienato. I clienti di Dylan, che vanno da lui perché hanno il classico spettro sumero nel frigorifero, o hanno a che fare con succhiasangue, demoni, case stregate, eccetera, o in alternativa perché hanno ammazzato qualche decina di persone (alcune delle quali magari non erano d’accordo), fuggono spaventati dalle battute a raffica di Groucho. Non si scompongono per il campanello che urla invece del solino drin drin, né per le riproduzioni dei mostri che affollano l’atrio dell’appartamento di Dylan, ma vanno su tutte le furie dopo tre o quattro grouchate, peggio ancora se Dylan stesso trova l’occasione di rincarare la dose facendo umorismo a sua volta. L’ironia per Sclavi è l’altra faccia della realtà, è il modo migliore (e unico?) di affrontare l’orrore quotidiano, e l’orrore del quotidiano; e di riflesso è anche il modo in cui rendere digeribili gli orrori più propriamente detti che affollano le sue storie (che si tratti di un mostro che dilania persone a morsi, o di un impiegato delle poste che tratta male l’anziano poco pratico con scartoffie e affini). Nell'albo L'uomo che visse due volte (n.67, di Sclavi/Venturi, aprile 1992), geniale adattamento de Il fu Mattia Pascal (Pirandello è fondamentale in tutta la poetica sclaviana), Groucho tocca il suo apice: Bloch finisce in coma, e Groucho ce lo fa uscire a raffiche di battute (fino a quando il commissario non è costretto a risvegliarsi per chiedere pietà)! Per dirla con Giampiero Casertano, uno dei principali disegnatori della serie: “La sua geniale follia è proprio questa: stemperare, dare un tocco di comicità al dramma e far tirare un sospiro di sollievo al lettore”.
Groucho, oltre dunque alle battute figlie dei Marx, di Woody Allen, di Mae West, di Totò e quant’altri, fa ben poco. E lo fa male, nel senso che lo fa al contrario di come ci si aspetterebbe (sempre e solo frustrazione delle aspettative). Perché ad esempio, dopo aver dato un’idea di sé tutt’altro che affidabile, prepara un ottimo tè, e spesso capita che tenga la situazione sotto controllo molto più dell’impulsivo Dylan, risultando determinante nella risoluzione del caso. All’atto pratico ha una sola funzione, che è quella di tenere in custodia la pistola del capo (che è sempre attaccato al collo, è bene ricordarlo) e lanciargliela nel momento clou dell’azione. Ma, non di rado, capita che si dimentichi di caricarla, che la tiri con scarsa precisione (magari in faccia a Dylan), che l’abbia persa (“L’avrò mandata in lavanderia”), che la scambi con qualcos’altro (una pistola finta, o più spesso un oggetto del tutto fuori contesto); qualcosa insomma che generi ilarità anche nel momento più drammatico e coinvolgente dell’albo.
Sclavi è uno che ama prendersi poco sul serio. All’apparenza, perché poi questo gli permette di sorprendere gli altri dimostrando quello che sa di valere.
Sclavi è Groucho.




Studi iniziali del disegnatore Claudio Villa per il protagonista (che doveva chiamarsi Francesco Dellamorte) e per la spalla comica (ispirata all'attore Marty Feldman)



Anche il volto di Dylan (definito dopo numerose prove e varie soluzioni diverse discusse tra Sclavi e il disegnatore Claudio Villa, creatore grafico della serie) viene dal grande schermo, è quello del Rupert Everett di La scelta (Another Country), il film che convinse definitivamente Sclavi, e che l'autore impose di vedere a Villa, quando stava definendo i primi studi e i primi bozzetti su un personaggio che appariva diverso tanto graficamente quanto caratterialmente (Sclavi aveva in mente un protagonista cupo, chandleriano) dal Dylan che conosciamo oggi. Qui la somiglianza è meno funzionica che per Groucho, ma resta comunque importante la scelta del modello, che – come un po’ per tutti i personaggi a fumetti – contribuisce a definire meglio il carattere del protagonista, attraverso quelli che sono un po’ i tratti principali del personaggio-attore scelto. Dylan come Rupert Everett (o meglio, come i personaggi che Everett interpreta) ha l’aria da bello e dannato ma è un romantico sognatore, “sguardo malinconico, tra la noia e l’aristocratico, gentile ma un filo snob” (G. Origa). E non è un caso che per interpretare Francesco Dellamorte, nel film di Soavi, sia stato voluto proprio l’attore inglese (scelta congeniale sia all’autore, che ha avuto il volto su cui il personaggio era stato modellato, che ai produttori, che hanno potuto lanciare la pellicola come il film di Dylan Dog, proprio nel periodo in cui il suo successo stava esplodendo).
Dylan è l’Indagatore dell’incubo. A leggere la sua targhetta, si potrebbe pensare anche a una specie di strizzacervelli. E in qualche modo lo è. I suoi clienti però non sono quelli che nelle storie richiedono i suoi servigi, che sono di tutt’altro tipo. A farsi condurre attraverso la propria psiche è invece il lettore. Il lettore si identifica in Dylan perché Dylan è più persona che personaggio: è una sorta di eroe nel senso più pieno del termine, a metà tra Nero Wolfe, Casanova, John Wayne e Batman, eppure è tutt’altro che senza macchia né paura; è un virtuoso, pacifista, astemio, vegetariano, non fuma, non guarda la tv, se ne infischia della moda e gli viene l’orticaria alla sola idea di trovarsi in una discoteca, eppure è l’antieroe per eccellenza, claustrofobico, acrofobico, ha una fifa matta dei pipistrelli e di altre creaturine varie; ex alcolizzato, ex agente di Scotland Yard, suona il clarinetto ma malissimo (come Woody Allen, guarda un po’), dedica il tempo libero alla costruzione di un modellino di galeone ma non riuscirà mai – per fortuna sua e nostra – a finirlo, spara sentenze a metà strada tra frasi storiche e retorica da due soldi, è scettico ma non scarta nessuna possibilità, si innamora ogni mese e ogni mese è quella buona da sposare, ma rimane puntualmente piantato in asso o con una fidanzata che a fine albo o è stecchita o è una serial killer. È generoso ed egoista, ha i suoi saldi princìpi morali ma fa del dubbio la colonna portante della sua filosofia.
Dylan è umano, è un ragazzo interessante. Per questo ha tanto successo.
Chi sia in realtà Dylan, però, è difficile a dirsi. Certo, abbiamo detto che è l’indagatore dell’incubo, detective specializzato in casi insoliti, fantasmi, morti viventi, lupi mannari. Mostri. Sappiamo che è un londinese poco oltre la trentina, un ciarlatano secondo la stampa, un dongiovanni secondo le – fondatissime – voci metropolitane. Veste in jeans, camicia rossa, giacca scura, Clerks; ha decine di completi tutti identici; l’amico Bloch gli chiede “Non potresti comprarti un cappotto?” “Mi rovinerebbe il look”. Piccole cose per descrivere una persona. Come l’intercalare, “Giuda ballerino!”, un po’ sofisticato e un po’ ridicolo, surreale e assurdo; nei primi anni si azzardava ad aggiungere di tanto in tanto un “… e porco!”, ogni tanto partiva anche qualche parolaccia – caso più unico che raro nella storia della Bonelli Editore, o Daim Press come si chiamava vent’anni fa – ma come sappiamo ci ha messo poco Dylan Dog a finire nelle mire dei potenti, delle istituzioni e della censura, se già in Caccia alle streghe (n.69, di Sclavi/Dall’Agnol, giugno 1992) l’autore urlava la sua rabbia e la sua disperazione per il trattamento assurdo che stavano riservando alla sua creatura. E, sempre nei primi anni, intorno all’identità di Dylan si era creato un alone di mistero perfettamente in linea con i toni che aveva allora la serie. Sempre nel n.1, Groucho dice che Dylan è morto nel 1686 e quello di ora è la sua reincarnazione, e le allusioni di questo tipo continuano in diversi albi successivi; ma è Groucho a farle, per cui chi volete che gli dia retta? Il passato del Nostro comunque viene tenuto oscuro più che segreto, qualche flash ogni tanto giusto per aumentare il mistero, persone che ha conosciuto, posti che ha visitato. Nell’albo più anomalo e romantico dell’intera serie, Il lungo addio (n.74, di Sclavi/Marcheselli/Ambrosini, novembre 1992), ci si racconta di una storia d’amore vissuta da Dylan nell’adolescenza. Ma difficilmente si va più indietro. Fino al botto. Il n.100 (tutto a colori, come da tradizione bonelliana) si intitola La storia di Dylan Dog (di Sclavi/Stano, gennaio 1995), ed è l‘ultimo album della serie. Cioè, la serie continua, ma il centesimo episodio ci narra la sua fine. O una sua possibile fine. Nell’albo, Dylan finalmente completa il galeone, e questo apre una porta tra mondi e destini diversi, tra futuro presente e passato, un passato che effettivamente è di secoli fa, e che potrebbe confermare – o almeno, non smentisce – le allusioni di Groucho. Ma queste scemano definitivamente dopo i pezzi aggiunti al puzzle dall’albo Finché morte non vi separi (n.121, di Sclavi/Marcheselli/Brindisi, ottobre 1996), che festeggia il decennale della testata raccontando nientedimeno che del matrimonio di Dylan! Sì, almeno una delle sue donne Dylan è riuscito a sposarla davvero, anche se – il titolo dell’albo è eloquente – è durata ben poco, dato che sua moglie, Lillie Connolly, è un’attivista dell’Ira che muore in prigione poco dopo il matrimonio. Sarà questa tragedia a spingere Dylan a lasciare la polizia, e a condurlo all’alcolismo, come viene spiegato nel Numero duecento (n.200, di Barbato/Brindisi), in cui Dylan sceglie il nuovo lavoro, incontra Groucho e lo assume (o meglio, è Groucho che si auto-assume). Ma il nuovo (recentissimo) grande botto avviene con il doppio albo del ventennale, Xabaras! e In nome del padre (nn.241-242, di Barbato/Brindisi, ottobre-novembre 2006), in cui finalmente si va più indietro nel tempo, seppure sempre in maniera onirica e visionaria, fino all’infanzia di Dylan, che sembrerebbe effettivamente nato nel diciassettesimo secolo, figlio del suo nemico giurato… ma non dico altro.
La sua storia è avvolta nel dubbio che avvolge sé stesso. Ed è in ogni caso una storia di amore, di amori, di amore e morte, di amore e orrore. È la storia di un essere umano, uno come tanti.
Sclavi è uno che riesce a riflettersi nei personaggi che crea, riesce a dotarli della sua infinita umanità.
Sclavi è Dylan.




Dylan Dog visto dal grande Giancarlo Alessandrini, che dell'indagatore dell'incubo ha disegnato l'albo Gigante n.13



Ci sarebbero poi da descrivere pochi altri personaggi.
Il commissario Bloch di Scotland Yard, ex capo di Dylan e sorta di padre putativo del Nostro, a cui dà sempre una mano passandogli dossier, informazioni, e permessi vari; è un omone buono (ha il volto e la fisionomia dell’attore Robert Morley) con la pazienza agli sgoccioli anche per causa dello strampalato assistente Jenkins, la pensione di anzianità sempre più lontana e l’esaurimento nervoso sempre più vicino (Sclavi è Bloch).
Il miliardario Lord H.G.Wells, col nome del famoso romanziere e il volto di David Niven, è l’uomo più stravagante e più geniale del pianeta. Ha l’inventiva di Archimede e i soldi di Paperone, è stralunato come Paperoga, e non sbaglia un colpo, trovandosi spesso ad aiutare Dylan.
Xabaras, genio del male continuamente alla ricerca di un modo per far tornare in vita i morti, è il nemico numero uno (infatti appare nel numero uno) di Dylan. Ed è suo padre.
Morgana, uno dei più forti e più folli amori di Dylan. È sua madre.
Bree Daniels è una prostituta (libera professionista, prego!) che incrocia la strada di Dàilan (come lo pronuncia) in tre o quattro occasioni, ma solo due davvero. Ha il volto e il nome del personaggio interpretato da Jane Fonda nel film Una squillo per l’ispettore Klute.
La Morte, mantello nero e falce in spalla, interpreta sé stessa, e in una serie del genere non è un ruolo marginale.



E poi ci sono i mostri.
Johnny Freak (sfortunato ragazzo protagonista dell’albo più commovente della serie, e di un seguito), Killex (un parente molto prossimo di Hannibal Lecter), Mana Cerace il mostro del buio, il piccolo Ghor, Frankenstein, scienziati pazzi, assassini, vittime della società, demoni…
In ogni caso, umani.
“Io non sono né Dylan né Groucho: io sono i mostri” (Tiziano Sclavi).