A cominciare da SnowWhite and the Seven Dwarfs (Biancaneve e i Sette nani), del 1937, primo lungometraggio del colosso dell’animazione, a cui prese parte attivamente lo stesso Walt Disney, i legami indissolubili al mondo della fiabe, delle leggende e di molta narrativa tramandata spesso oralmente, in forza delle credenze popolari, del fascino ancestrale della leggenda e del potere che esse hanno sempre avuto sui popoli emergono diffusamente, sotto molteplici aspetti.
La trama, a ben vedere, è effettivamente tratta da una celebre fiaba del fratelli Grimm e narra - con l’aggiunta di un finale romantico e per questo, molto spesso, anche maggiormente disprezzato - delle vicissitudini della giovane Biancaneve, principessa bella e bistrattata dalla perfida regina Grimilde, invidiosa della sua grazia e per questo spinta a commissionarne l’uccisione ad un cacciatore, il quale, frenato dalla sua coscienza proprio sul punto di commettere l’omicidio, consente alla sua vittima di fuggire e di rifugiarsi in un bosco, nel quale farà la conoscenza di sette nani minatori che le offriranno protezione tentando di nasconderla alla malvagia sovrana.
Ad un’analisi puramente superficiale, in realtà, Biancaneve potrebbe apparire come un manieristico, seppur magnificamente riuscito, esercizio di stile. Ed effettivamente è proprio intorno ad uno stile fin da subito estremamente peculiare che quest’opera fa perno. Si è già detto molto, in questo post, circa l’introduzione delle Silly Simphonies nell’ambito delle serie animate disneyane, ma soprattutto riguardo al loro ruolo di innovazione stilistica, di espressione da un lato manieristica, dall’altro, invece, vero e proprio mezzo di rivoluzione contenutistica, che fuggisse dalla realtà – sempre e comunque carica(turizza)ta – di Topolino, per andare a raffigurare un Mondo mai esistito, ma che rispecchiasse le tensioni e i desideri repressi nella coscienza collettiva di una società scontenta ed imperfetta. Ecco, Biancaneve parte proprio da qui. Dalla trasposizione in lungometraggio, da un insistere più professionale, se vogliamo, a seguito delle numerose sperimentazioni nelle serie ad episodi, di questo modello di film d’animazione. Un cinema del disegno che rifugga la realtà per rappresentarne una idealizzata.
Perciò non può esistere modo migliore che quello di prendere spunto dalla fiabe e dalle favole popolari.
Fin dall’impianto stilistico di questo film, è evidente come Walt Disney abbia curato con estrema puntualità il rapporto fra idea e materialità, fra concetto astratto e rappresentazione della fisicità. Nulla è certo in Snow White, ma ogni elemento pare poggiare su un terreno fragile e quasi vacuo, in cui il tratto marcato cede il posto ad un relativismo formale difficilmente riscontrabile, comunque, nei lavori che seguiranno questo esordio disneyano nel lungometraggio. Seppur la fiaba rimanga, per buona parte della filmografia di Walt Disney e dei suoi “discendenti”, il fulcro della poetica della scuola d’animazione di Burbanck, comunque Biancaneve e i Sette nani è il film che meglio amplifica questi concetti di idealizzazione d’ogni elemento filmico compreso nel disegno, tanto da dilatarli all’inverosimile.
Pinocchio rinuncerà ad attenersi fedelmente al libro originale, continuerà a riferirsi con espliciti rimandi alla mitologia nordica, in ossequio proprio al legame con il mondo fiabesco, ma tenderà, tuttavia, a concentrarsi con estrema solerzia sulla caratterizzazione del personaggi, sulla loro evoluzione, perfino sulla loro peculiare visione di quel mondo inventato. Cosa che in Biancaneve non accade. Qui si ha fin da subito una mancanza di punti certi, un contesto corale che via via va intensificandosi, spostando il baricentro dell’opera dal personaggio centrale della protagonista ad una serie di caratterizzazioni che prendono forma e senso solamente nella loro organicità complessiva. Le creature del bosco, i sette nani, la strega Grimilde, sono tutti personaggi che non godono di una specifica personalità, ma sono riconoscibili (o irriconoscibili) per tratti comuni e leggibili unicamente in virtù di qualche legame con altri personaggi. In questo senso Biancaneve e i Sette nani è il film più idealistico e meno materiale di Walt Disney. Gli sfondi acquerellati, che si modellano e si plasmano, come già detto, sulle Silly Simphonies, non offrono la possibilità di contestualizzare e di attualizzare l’opera, di rapportarla al mondo odierno, ma staccano immediatamente la percezione dello spettatore da qualsivoglia legame dialettico con la realtà. Il personaggio inizialmente isolato di Biancaneve, presentato solamente dopo la regina Grimilde - la quale incarna il Male – si sbiadisce sempre di più su questo paesaggio a cui manca la certezza dei contorni definiti, perde la propria personalità, la propria identità, per andare a raffigurare più un’idea, forse la traduzione in segni grafici di un canone, piuttosto che l’interpretazione di un carattere, di un personaggio, appunto. E a ben vedere, l’unico personaggio i cui tratti grafici sono più marcati è proprio Grimilde, la quale, in qualche modo, sveste i panni dell’idea per andare a configurarsi come fisicità, come Male materializzato.
Il messaggio di quest’opera è effettivamente banale, come molto spesso accade nel Cinema. Ma è il modo di raccontarlo che lo rende unico. Il Bene è da preferirsi al Male. Due idee contrapposte. Ma Walt Disney mette in risalto, forse nascondendo un po’ di pessimismo, dietro a quella facciata di zuccheroso romanticismo, che il bene, per essere davvero tale, debba per forza fuggire dalla sfera degli istinti, della pragmaticità, della materialità, per pulirsi da ogni segno pronunciato, da ogni legame terreno, fino a rendersi un’idea spuria di qualunque riferimento fisico. E’ inutile negare che la bellezza di Biancaneve è in realtà quanto di più distante dal concetto di bellezza che da sempre abbiamo in mente. Per un essere umano la bellezza è prima di tutto fisica, sensoriale, non ideale. Biancaneve, invece, sembra rinnegare e spegnere proprio ogni istinto (prima di tutto sessuale), rinunciare ad ogni stimolo erotico, per andare a rappresentare una bellezza canonica che non era mai stata presa in considerazione, nella sfera dei sensi o degli istinti. La bellezza di Biancaneve è ciò che la bellezza dovrebbe essere. E come qualcuno ha già rilevato, è un concetto che è estremamente antitetico a quello dell’istinto, che invece, qui, va a caratterizzare il Male. Mi piacerebbe che la dimensione psicologica che il concetto di “pulizia” assume in quest’opera non passasse inosservato. I rimandi a quest’idea sono davvero frequenti: fin dalla tecnica dell’acquerello (che richiama appunto una mancanza di tratti decisi, di istinti e, quindi, rimanda all’idea di visione acquatica, pulita, spesso addirittura slavata ed incerta), per arrivare alle scene in cui Biancaneve pulisce, insieme agli animali del Bosco, la casetta dei Sette nani, per giungere al bagno forzato di Brontolo. L’istinto deve essere lavato via da una purezza idealistica, concettuale.
Se si sposta l’attenzione sul personaggio della Regina - la quale, comunque, sempre in virtù di questo relativismo spinto, riesce a non concedere punti saldi nella percezione, ma cambia, nella mirabile sequenza della metamorfosi, sconvolgendo quella bellezza, che era convinta le appartenesse, in un nuovo aspetto quasi aberrante – si noterà che i segni che la contraddistinguono sono in verità molto più pronunciati, calcati rispetto a quelli di Biancaneve. La sua bellezza fisica e materiale va necessariamente a contrapporsi ai tratti attutiti, attenuati, spesso confusi della grazia di Biancaneve. Grimilde offre fin da subito spunti di ambiguità e infonde immediatamente inquietudine nello spettatore: ombreggiature insistite, contrasti in chiaroscuro, che derivano, ovviamente, anche dal contesto paesaggistico in cui è disegnata, che è appunto l’interno tetro e tenebroso del suo castello. Biancaneve, al contrario, che rappresenta l’innocenza idealistica, manca di linee sicure, ma si configura come un personaggio semplice, che richiami addirittura alla fisionomia di una bambina (il capo sproporzionato rispetto al corpo, il viso tondeggiante, il naso appiattito, la pelle chiarissima, la totale assenza di seno), priva di ombreggiature, tranne quelle necessarie a renderne credibile il dinamismo, complice anche, ovviamente, il paesaggio solare che introduce il personaggio fin dall’inizio.
Insomma, se per ogni caratterizzazione, in realtà, si rifugge generalmente proprio l’idea stessa di caratterizzazione, attribuendo senso e significato a tutto solo nella dimensione collettiva e corale, può tuttavia dirsi che la personalità emerga maggiormente nella rappresentazione di Grimilde, la quale ostenta fin da subito istinti materiali, passioni, sentimenti, invidia, tensioni fisiche: cerca in uno specchio (dall’immagine algida e fredda, dalla superficie vitrea, ferma e sicura) non ciò che è, ma ciò che fortissimamente vuole e perciò deve essere.
Ed infatti non è la sua immagine a riprodursi sul vetro, ma quella di un servo, una sorta di maschera teatrale (quasi il simbolo della mistificazione, della recitazione, della perdita dell’identità, della finzione) frutto di un incantesimo, che da sempre le rivela ciò che ella vuole sentirsi dire, ma che in un impeto di verità le farà notare che la più bella del reame (ma nell’originale addirittura the fairest of them all, la più bella di tutte) non è più lei, ma la giovane ed innocente principessa. E così Grimilde acquista significato in virtù del legame con questo non secondario personaggio. In parallelo, Biancaneve cerca in un pozzo l’amore ideale, senza minimamente curarsi della sua immagine (ancora una volta, guarda caso, acquatica) che si riflette sul fondo della cisterna, invocando il sentimento in nome di una speranza, di un sogno, ma assolutamente non di una ferma e convinta (nonché egoistica) volontà.
E pure il personaggio del cacciatore, che a suo modo riassume il contrasto particolarmente violento che si sottolinea fra educazione ed istintività, non deve essere trascurato. Costui esercita una professione che già di per sé è fortemente inerente alla sfera degli istinti. E proprio in virtù di questi, la Regina gli comanda di uccidere Biancaneve, pretendendo come prova che le riporti il suo cuore in un cofanetto. Ma proprio sul punto di commettere il crimine, il cacciatore, disegnato sempre con tratti decisi, ma inclini a sottolineare il contrasto interiore che vive - pelle scura/occhi azzurri, barba e capelli lunghi/cappello con piuma soffice, abbigliamento dal colore acceso e cupo allo stesso tempo (un giallo ocra particolarmente ambiguo) – cede alla forza della purezza di Biancaneve. Prevale l’educazione, ciò che è bene e ciò che è male, il saper riconoscere il limite ed il confine fra lecito e l’illecito, fra ciò che si può e ciò che non si può fare.
Un mondo di istinti che Biancaneve stenta a comprendere, fin dal momento stesso in cui fugge dal cacciatore per rifugiarsi nel bosco. Ma si tratta di una foresta letteralmente infestata di esseri che inizialmente paiono deformi a Biancaneve, quasi stesse vivendo un incubo (espressionista) dove i colori si confondono e tutto si sconvolge in un delirio di occhi, sguardi e passioni al culmine della loro esplosione.
In realtà Biancaneve scoprirà che quegli istinti (gli animali del bosco) non sono connotati negativamente, come quelli di Grimilde, bensì, al pari di quelli dei Nani – dei quali a breve farà la conoscenza – sono espressione di una naturalità selvaggia ma genuina, al limite dell’infantilismo.
Gli stessi sette nani, a soffermarsi sulla loro caratterizzazione, per riprendere quanto detto prima, sono l’emblema tanto dell’istinto, quanto della presa di forma e senso solamente in un contesto collettivo.
In effetti noi li conosciamo come I Sette Nani, senza quasi mai soffermarci a pensarli o a ricordarli ad uno ad uno. Ciascuno di essi rappresenta una tensione, un carattere, preso singolarmente, ma che da solo significa ben poco e solo nel suo insieme ci riconduce alla sfera sensoriale ed istintiva del genere umano: c’è Brontolo che palesa atteggiamenti ostili. Eolo che non riesce a frenare le sue allergie e le sue violente manifestazioni incontrollate che da esse derivano. Mammolo che agisce d’impulso, con il cuore, senza mediare con la ragione. Dotto, che dovrebbe essere quello più illuminato fra tutti, e che invece è sempre piuttosto agitato, tanto da ingarbugliare le parole e da incepparsi frequentemente mentre parla. Pisolo, che non si cura della presenza della Principessa e si abbandona costantemente al sonno, come è sua abitudine. Gongolo, che non conosce problemi e incertezze, e nella sua spensieratezza risulta essere sempre inconsapevolmente allegro. E infine Cucciolo, che è talmente infantile da non saper neppure parlare. Non sono personaggi evoluti, ma rimasti fermi ad uno stadio di non crescita; non per nulla sono “nani”, nell’accezione più razzista del termine. Ed infatti Biancaneve è fortemente contaminato da un manicheismo di stampo razzista, o comunque improntato sulla paura del diverso, quando non del reietto, che è visto come incarnazione del male: il bianco è sempre sinonimo di purezza, il nero sempre di malvagità; l’altezza è sinonimo di panteistica intelligenza (forse anche di ingenuità, ma comunque si tratta di un’inconsapevole capacità di essere madre di tutte le idee, i concetti), la bassezza è invece lo specchio di un istinto che rimane bloccato e che è impossibilitato a comprendere il tutto, specialmente le idee; la giovinezza è sinonimo di purezza, la vecchiaia significa invece inganno e crudeltà; infine, la bellezza interiore è bene, quella esteriore, pur essendo funzionale alla prima, è e rimane il mezzo per comunicare l’idea di integrità morale e di completa realizzazione (im)personale: il principe che con un bacio arriverà a salvare la principessa in preda al sonno mortale, quando i nani erano giunti in ritardo, mancando all’appuntamento con la crescita, la riabilitazione, con l’evoluzione. Gli stessi istinti che i nani o gli animali rappresentano, non sono in fin dei conti negativi come quelli di Grimilde. Si tratta di passioni allo stato brado, selvagge, per così dire, mai domate, che necessitano dell’educazione (la pulizia) proprio di Biancaneve. Ma i tratti di questi personaggi non sono violentemente negativi come quelli della Regina/strega, bensì naïf, infantili, anch’essi privi di contorni duri.
Biancaneve e i Sette nani è quindi, riassumendo, l’emblema di come il Cinema - anche d’animazione, il quale è uno stile, una tecnica, opera degli uomini e non “di uomini” - sia davvero un mezzo per raccontare e per comunicare. Se il suo messaggio rimane ancorato ai concetti obsoleti e talvolta negativi delle fiabe - xenofobi ed antropocentrici, che via via comunque spariranno, anche nei lungometraggi Disney, per lasciare lo spazio all’esaltazione della natura incontaminata (da Bambi a Il Re Leone) se anche talvolta ostinatamente incentrata sull’antropomorfismo dei personaggi (Le avventure di Bianca e Bernie), spesso comunque rappresentante una lotta continua fra il mondo onesto degli animali e quello corrotto degli esseri umani (Red e Toby) – il modo in cui li racconta, pur senza mai perdere di vista il fatto che è un’opera di largo consumo, destinata alle famiglie, ai bambini e ad infondere un certo senso di “educazione” nei suoi destinatari (concetti che stridono fortemente con quello di arte), è sempre incontestabilmente sublime. Come valeva, in ben altri ambiti, per artisti quali Frank Capra, John Ford o, su fronti ancora differenti, Dzjiga Vertov o S. M. Ejsestein.
Sintomo che, nonostante le finalità, se il risultato complessivo è soddisfacente, tutto sommato, si possono chiudere non uno, ma anche due occhi e, proprio staccandosi dal contatto con la realtà, farsi trasportare in quel mondo magico che è sempre stato il Cinema. Anche quello disegnato. Anche quello firmato Walt Disney.