11 maggio 2008

Prima che Cristina D'avena uccidesse i nostri sogni e le nostresperanze...

Dall'alto dei miei stimabilissimi quattro anni osservo il microfono davanti ai miei occhi. Sarebbe stata la performance di una vita. Un intero anno trascorso davanti alla TV avrebbe finalmente fruttato una rispettabile carriera da rock star. Chiudo gli occhi per godere appieno del mio momento di gloria. Quando li riapro il basso ha già cominciato a pompare un riff infernale, accompagnato da una batteria violenta e martellante. Il mio abito glitterato avrebbe inevitabilmente condizionato le mode del decennio alle porte. La folla è in delirio, visibilmente rapita dalla mia voce incisiva e graffiante, esaltata dai trascinanti cori di una band numerosa ed esperta. Le tastiere diffondono nell'aria quell'alone mistico e visionario capace di dare forma ai fotogrammi partoriti dall'immaginazione, come in un trip ad alto contenuto acido.
Terminata l'esibizione osservo le urla eccitate di un pubblico che pende letteralmente dalle mie labbra. Ma ecco che la pressione del tasto Stop, seguito dal rumoroso riavvolgimento del nastro, mi riportano immediatamente alla realtà. Mia nonna mi osserva con quel fare amorevole misto a compassione che solitamente si riserva a un cucciolo dalle fattezze buffe mentre si accinge a fare qualcosa di insolitamente goffo: "Adesso la riascoltiamo dall'inizio e poi registriamo Anna dai capelli rossi, d'accordo?". "D'accordo!", rispondo io con voce esile e vagamente effeminata che ben si addice a un moccioso della mia età.
Da qualche parte conservo ancora quelle registrazioni: Astro Robot, Anna dai capelli rossi, Paul e Nina e forse anche Capitan Futuro. E oltre a quelle conservo anche una piccola collezione di 45 giri originali, di cui in effetti gradirei poter rientrare in possesso quanto prima. Purtroppo è tuttora custodita sottochiave nelle oscure segrete della villa di mia nonna, che tanto fu amorevole nell'acquistarli, quanto carogna nel non volermeli cedere. "Quando morirò", ripeteva sempre. Il vero problema è che mia nonna è moribonda da almeno cinque anni, ma non accenna a voler abbandonare definitivamente questo pianeta. Sembra quasi che qualcuno l'abbia mesmerizzata nella speranza che la sua essenza continui a vivere a dispetto del totale disfacimento fisico.
Inutile dire che ormai le speranze di poter recuperare quella manciata di 45 giri sono pressoché pari allo zero. Che sia una sorta di pena del contrappasso? Mi spiego meglio: all'età di cinque anni ebbi tra le mani la più grande collezione di 45 giri legati al mondo delle sigle che si possa immaginare. A dire il vero non è che fosse proprio mia. Era della mia migliore amica, nonché vicina di casa, Claudia. Annoverava un po' di tutto, dalle sigle più conosciute a quelle più ricercate, per un totale di una sessantina di pezzi (forse più), molti dei quali oggi come oggi farebbero gola a parecchi collezionisti del settore. Ebbene, quella collezione oggi, grazie alle mie famigerate doti vandaliche, non esiste più. Accadde una mattina. Io e Marco, ci introducemmo furtivamente in casa di Claudia durante la sua assenza e sequestrammo l'intera collezione accuratamente riposta in un contenitore di legno colorato. Ci recammo quindi in una zona deserta non lontana dalle nostre rispettive abitazioni e lì procedemmo alla strage: trasformammo quei 45 giri in veri e propri frisbee da spiaggia e ce li lanciammo uno ad uno sulla lunga distanza, fino a quando non si frantumarono tutti quanti sull'asfalto. Ricordo ancora l'espressione della piccola Claudia al suo ritorno e le successive sgridate da parte dei nostri genitori a dir poco imbestialiti. Non so esattamente cosa mi spinse a compiere quel tremendo gesto distruttivo, ricordo soltanto che lì per lì mi parve una buona idea per far trascorrere il tempo.
Tutto questo per dire che, se ancora oggi il destino rema contro la mia esplicita volontà di rientrare in possesso di quei pochi pezzi che compongono la mia collezione, probabilmente lo devo anche a questo.

In quegli anni comunque non avevo ancora maturato una vera e propria passione per le sigle dei cartoni animati. Intendiamoci, le ho sempre trovate emotivamente coinvolgenti, forse per la natura stessa della sigla. Tuttavia non mi appassionavano al punto da sentire la necessità di approfondire l'argomento con la conoscenza di interpreti ed episodi legati alla loro realizzazione. Quello accadde solo in seguito, all'età di circa ventidue anni, quando per puro caso mi accorsi che quelle sigle erano ancora reperibili in versione estesa nei meandri oscuri del selvaggio Web. Ed ecco quindi che riascoltandole ritrovai quelle stesse emozioni che mi avevano accompagnato durante l'infanzia. Fu solo col senno di poi che fui capace di rivalutare ed apprezzare gli intricati meccanismi che si celavano dietro quel piccolo e meraviglioso microcosmo ricco di sensazioni.
All'epoca Cristina D'avena non era stata ancora inventata e l'universo delle sigle si presentava competitivo e variegato: competitivo perché a quel tempo le sigle venivano date in appalto a più complessi che presentavano la loro versione del brano nella speranza che venisse scelto e poi mandato in onda; variegato perché questo sistema a commissione stimolava le capacità creative di molti validi gruppi o artisti che in alcuni casi la sorte non aveva concesso loro di far carriera come musicisti tradizionali. Jeeg Robot è stato il primo cartone animato trasmesso dalle televisioni private italiane. La sigla non è altro che una rivisitazione in lingua italiana del pezzo originale: il brano è stato convertito in mono, tagliato di una strofa e modificato con l'aggiunta di una traccia strumentale. Si dovette optare per questa soluzione perché il cartone animato sarebbe dovuto andare in onda solo due giorni dopo e non sussisteva dunque il tempo materiale per incidere una sigla tutta nuova. Venne così reclutato tale Roberto Fogu (in arte Fogus) che in breve diede vita alla canzone che tutti abbiamo ascoltato e canticchiato almeno una volta.
Il brano tuttavia non venne venduto immediatamente, c'erano ancora numerose reticenze in merito a un'eventuale distribuzione commerciale. Mariano Detto, proprietario della CLS Records, riteneva infatti che nessuna sigla avrebbe potuto fare successo a meno che non fosse stata trasmessa dalle reti RAI e negò dunque il consenso alla pubblicazione. Dopo qualche tempo tuttavia, per mera curiosità, decise di domandare al suo distributore romano se ci fossero state delle richieste in merito a una sigla dal titolo Jeeg Robot. E fu allora che si rese conto del suo clamoroso errore di valutazione: le richieste c'erano state ed anche piuttosto numerose. Il distributore di Roma ordinò ventimila copie del quarantacinque giri, che venne così stampato in fretta e furia. In ogni caso i risultati in termini di vendite lasciarono alquanto a desiderare, dato che nel frattempo la RCA ne aveva approfittato per distribuire nei negozi una cover della suddetta sigla, realizzata dai Superobots. Senza contare che la copertina del 45 giri di Fogus, contrariamente a quello dei Superobots, non mostrava Jeeg in tutto il suo meccanico splendore, bensì un mostro nemico dalle inquietanti sembianze. Insomma, una scelta sbagliata dietro l'altra compromise il successo di questo 45 giri, ma permise al tempo stesso di comprendere la portata potenziale di un vero e proprio mercato delle sigle, non più circoscritto ai prodotti trasmessi dalla RAI.
Per molto tempo sulla sigla di Jeeg circolò la leggenda secondo cui a cantarla sarebbe stato nientemeno che un giovanissimo Piero Pelù. Inutile dire che questa affermazione, alla quale ho sempre faticato a dar credito per tutta una serie di ottime ragioni che ora non starò qui a spiegare, si è rivelata nel tempo una banale leggenda metropolitana.
Ad ogni modo non fu questo l'unico episodio in cui una sigla italiana venne rimaneggiata direttamente dall'originale. Accadde anche per le due sigle di Ryu, il ragazzo delle caverne. Credo invece che Mazinga Z, pur essendo anch'essa una cover della rispettiva sigla giapponese, sia stata completamente riarrangiata. In rari casi si è arrivati addirittura a non modificare per niente il brano d'apertura giapponese, probabilmente più per mancanza di tempo che per assecondare una precisa scelta di marketing: è il caso di Zambot III o L'invincibile Shogun, tanto per fare qualche esempio. Sigle che nonostante tutto sono entrate comunque a far parte della memoria storica di ogni appassionato. Certo, in maniera alquanto ironica e grottesca, visto che poi i testi venivano reinterpretati da noi marmocchi in chiave sarcastica e, spesso e volentieri, pornografica. Ma ci hanno comunque segnato.



A farla da padrone erano soprattutto I Cavalieri del Re, c'è poco da fare. E non tanto per il numero di sigle incise o per il valore effettivo delle stesse, quanto piuttosto per le voci particolarmente incisive di Riccardo Zara e Clara Serina. Riccardo Zara ha cantato la sigla di Devilman, mentre Clara Serina, tanto per fare chiarezza, ha dato voce alla prima sigla italiana di Lady Oscar (che a me personalmente non è mai piaciuta, ma che pare riscuotere ancora oggi enorme successo tra gli appassionati). Nonostante il loro aspetto tremendo (a metà tra gli Abba e I Cugini di Campagna), che per fortuna all'epoca nessuno conosceva, bisogna ammettere che I Cavalieri del Re son stati comunque capaci di sfornare alcune tra le sigle più belle e meglio arrangiate del panorama italiano: Il libro Cuore in primo luogo; ma anche Lo specchio magico, Kimba o L'isola dei Robinson. Si trattava essenzialmente di ballate in vecchio stile, caratterizzate da soluzioni armoniche di tutto rispetto. Forse gli appassionati più giovani avranno avuto modo di apprezzarli soprattutto per la bellissima sigla della serie Caro Fratello, intorno alla realizzazione della quale si può tranquillamente affermare abbiano dato davvero il meglio.
Tuttavia già all'epoca le mie preferenze vertevano più che altro sul rockeggiante, il che mi portava a preferire altri artisti ed altre sigle, come ad esempio i Rocking Horse (interpreti di Candy Candy, Toriton, Il dr. Slump e Arale e della magnifica Forza Sugar), i Superobots (Blue Noah, Babil Junior) o la Superband (Fantaman e Supereroi, due tra le più belle sigle di sempre). Tutti questi complessi vedevano alla voce il grande Douglas Meakin che, con quella sua cadenza straniera e quel falsetto terribilmente irritante, riusciva a rendere tutti i suoi pezzi facilmente riconoscibili.
Da non dimenticare poi i Fratelli Balestra, pure loro simili nell'aspetto ai protagonisti di una soap sudamericana degli anni '70. Ottimi soprattutto per le soluzioni armoniche a più voci (in stile Cavalieri del Re) e per via di tre pezzi assolutamente memorabili: Daitarn III, Teppei e X Bomber. Daitarn III in particolare è forse ancora oggi la sigla più amata ed apprezzata di sempre, data la sua melodia semplice ed efficace, accompagnata da un arrangiamento che definire perfetto sotto tutti i punti di vista è addirittura poco.
Altro complesso degno di nota furono gli Oliver Onions, gli autori che in assoluto ho preferito. E non solo perché hanno firmato alcune delle sigle a cui sono maggiormente legato, quanto perché si può tranquillamente affermare che non abbiano mai interpretato una sigla che possa definirsi brutta: Rocky Joe, Galaxy Express, le due sigle di Marco Polo e via dicendo. Che poi, per dirla tutta, la loro carriera discografica si è estesa ben oltre l'universo dei cartoni animati, come ben sa chiunque sia cresciuto con le pellicole di Bud Spencer e Terence Hill. Un complesso coi controcazzi insomma, che probabilmente avrebbe meritato qualcosa di più in termini di successo, ma che comunque può vantare una carriera di tutto rispetto nell'ambito delle colonne sonore. Anche loro d'altronde peccavano in termini di immagine, dato che sul palcoscenico avevano tutta l'aria di due figli dei fiori fricchettoni con chiare tendenze omosessuali.
C'erano poi due grandi voci femminili, morbide e calde come poche. Erano quelle di Giorgia Lepore e Stefania Mantelli. La prima interprete di Conan, il ragazzo del futuro, La fantastica Mimì e Peline story; la seconda voce solista del coro Le Mele Verdi, nonché artefice della memorabile interpretazione di Mademoiselle Anne.



Purtroppo col tempo il sistema di assegnare le sigle in appalto venne meno e in breve il mercato fu letteralmente fagocitato dalla voce di Cristina D'Avena. Non che la povera Cristina non abbia mai cantato belle canzoni, intendiamoci, ma senza quella giusta dose di competitività e concorrenza che aveva caratterizzato il mercato discografico tra la fine degli anni '70 e la prima metà degli anni '80, la qualità media delle sigle proposte cominciò progressivamente a scadere. Come se questo non bastasse, ogni qual volta un vecchio cartone veniva ritrasmesso in TV sulle reti nazionali, si affidava (e si affida tuttora) a Cristina l'ingrato compito di registrare una nuova sigla, decretando così la definitiva sepoltura di un contesto musicale florido e ricco di intense emozioni quale fu l'universo delle sigle di un tempo.
A volte mi domando quale sorte avrebbero avuto i robottoni giapponesi se a cantarne le sigle fosse stata la D'Avena. Sarebbero stati altrettanto affascinanti e coinvolgenti? Ed io li avrei guardati con gli stessi occhi? Probabilmente a quest'ora sarei più rincoglionito e traumatizzato che se fossi cresciuto con i lungometraggi della Disney: non fumerei, non sarei dedito all'alcool e neppure sognerei la distruzione del Mondo a cavallo di una macchina ipertecnologica dalle fattezze umanoidi. Cosa che invece prima o poi farò, questo è chiaro.



Scritto da Deeproad