Chi è Art Spiegelman?
Il professor Arthur Spiegelman (insegna storia ed estetica del fumetto alla School of visual arts di New York) è nato nel 1948 a Stoccolma da una coppia di ebrei polacchi rifugiati scampati ad Auschwitz e che di lì a poco si trasferiranno negli Stati Uniti dove il piccolo Artie crescerà e vivrà. Il padre Vladek, uomo dallo spiccato senso imprenditoriale e che le vicissitudini della guerra hanno reso pragmatico fino ai limiti del cinismo, lo vorrebbe dentista, ma Arthur studia fumetto e illustrazione, e a 16 anni comincia a disegnare professionalmente. Al college studia arte e filosofia, e comincia a lavorare per la Topps (grossa industria americana della gomma da masticare) realizzando loghi e disegni durante tutta una collaborazione che durerà oltre vent’anni e che naturalmente influenzerà pesantemente l’approccio di Spiegelman all’illustrazione. Spiegelman infatti è forse il più “metropolitano” dei grandi autori di fumetti; entra in contatto col mondo del fumetto underground, lo studia e ne assorbe le caratteristiche, fondendole in uno stile composto da una molteplicità di stilemi che gli permette di approcciarsi ad ogni singola storia, ad ogni singolo tema, con le modalità grafiche che ritiene più consone. Le sue vignette compaiono sulle riviste più disparate, dal New York Times a Playboy, fino a fondare lui stesso una rivista specializzata, Raw, dedicata appunto al fumetto, alla grafica e all’illustrazione, vero punto di riferimento di tutto il mondo dei cartoonist americani (una sorta di corrispettivo, in grande, dell’italiano Scuola di fumetto), e veicolo di quella che sarà l’opera più importante di tutta la produzione di Spiegelman e che gli consegnerà finalmente la giusta considerazione a livello mondiale e socio-culturale, fruttandogli lo Special award del Premio Pulitzer nel 1992.
Autoritratto di Art Spiegelman
Che cos’è Maus?
È sulle pagine di Raw, infatti, sin dal primo numero, che Spiegelman comincia a pubblicare a puntate Maus, una delle più importanti opere di narrativa del secolo scorso.
Maus è una graphic novel sull’olocausto, e in realtà, pur essendo semplicemente questo (in fondo è come dire che l’Iliade è un poema sulla guerra di Troia), è molto di più. La narrazione di Maus si snoda su due livelli diversi, c’è il presente con Arthur Spiegelman che va a casa del padre Vladek per intervistarlo, e c’è il passato della guerra e dell’olocausto visto attraverso il racconto di Vladek. Ma non si tratta solo di un doppio racconto, il montaggio non è alternato ma parallelo, i due livelli spazio-temporali insomma sono distinti ma non separati, intercorre anzi tra i due, e sta qui il nodo della riuscita dell’opera, un rapporto di interazione strettissimo, una relazione di influenza reciproca: il rapporto tra Art e il padre (e Mala, la donna con cui il padre si è risposato dopo la morte della madre di Arthur) fornisce una chiave di lettura con cui cogliere al meglio il dramma del racconto di Vladek, e ancora di più è vero il viceversa, il racconto di quello che è successo al povero Vladek durante la Seconda Guerra Mondiale non è che lo specchio, la metafora, del dramma umano di un padre e un figlio che pur volendosi bene non riescono a non essere distanti, su due mondi diversi (situazione sottolineata anche dal linguaggio dei due, inglese sciolto quello di Art, affannato quello del padre, non madrelingua e segnato dalla parlata della comunità ebraica newyorchese e da strutture sintattiche tipiche dello yiddish), non riescono a trovare la sintonia per un rapporto sereno e intimamente familiare.
Maus - Racconto di un sopravvissuto
La storia – Il dramma degli avvenimenti
In un breve prologo di due pagine, il piccolo Artie (nel 1958, quindi a 10 anni) si fa male giocando con gli amici, e il padre vedendolo lo avverte: “Se chiudi loro insieme in stanza senza cibo per una settimana… allora tu vedi cosa è amici!...”.
Subito dopo comincia la vera (doppia) vicenda. Art, adulto, va a trovare il padre che ora abita con Mala, un’altra sopravvissuta (“come quasi tutti gli amici dei miei”). Dopo cena, i due si recano nello studio di Vladek, e qui Arthur convince il padre a cominciare a raccontargli della sua terribile esperienza, per il libro che già da tempo vuole scrivere e di cui già aveva parlato al genitore.
Il racconto di Vladek non comincia direttamente con la guerra o da qualche punto saliente, ma da quando era giovane e viveva tranquillamente a Czestochowa, commerciando in tessuti e divertendosi come tutti i giovani. Si districa a fatica da una relazione, che lo diverte ma non lo convince, per sposare Anna (detta Anja) Zylberberg, una ragazza non attraente ma intelligente e sensibile, oltre che – Vladek si premura di sottolinearlo – di famiglia più che benestante. A questo punto Vladek interrompe la narrazione per chiedere al figlio di non mettere nel libro questa parte, perché “non c’entra niente con Hitler, con Olocausto”; Art insiste, dice che vuole mettere tutto, per rendere la vicenda più umana, ma alla fine, nell’ultima vignetta con i due personaggi in controluce, il vecchio Vladek strappa al figlio la promessa di tralasciare queste parti private. Siamo alla fine del primo capitolo. Ogni capitolo presenta una visita di Art al padre, e il brano di storia che da questo si fa raccontare.
Nel secondo capitolo cominciano i guai: nasce Richieu, il primo figlio di Vladek e Anja, ma il parto incide sul già debole sistema nervoso della donna, che finisce in una clinica per ritrovare la serenità. Lungo il viaggio i due protagonisti si trovano per la prima volta davanti a una svastica, e durante la loro assenza avvengono i primi movimenti antisemiti a Sosnowiec, la città in cui vivono con la famiglia di Anja. Il 24 agosto 1939, Vladek viene richiamato nell’esercito polacco. Nel terzo capitolo Vladek racconta della sua esperienza sul fronte all’inizio della guerra, della sua cattura da parte dei militari nazisti come prigioniero di guerra e della sua (prima) detenzione, fino al rilascio; le leggi internazionali proteggono lui e i suoi compagni come prigionieri di guerra, ma una volta rilasciati chiunque è libero di sparare loro per strada, così Vladek – che già ha iniziato a mostrare la sua straordinaria capacità di adattamento e gestione – deve ingegnarsi e fingersi polacco per farsi aiutare da un ferroviere a tornare a casa da Anja. Il titolo del quarto capitolo parla chiaro: Il cappio si stringe parla della sopravvivenza a Sosnowiec di Vladek e Anja con la famiglia di lei, e delle misure sempre più repressive nei confronti degli ebrei da parte degli occupanti nazisti, con coprifuoco, controlli serrati, impiccagioni per strada, sequestri di anziani e elementi non produttivi, fino alla prima grande convocazione nello stadio della città, in cui circa un terzo dei membri della comunità ebraica cittadina sono stati trattenuti dalle SS per non fare più ritorno; tra questi, anche il padre di Vladek con la figlia e i nipoti.
Il quinto capitolo si apre con una svolta nel rapporto tra Art e Vladek. Da Mala, Art viene a sapere che il padre ha trovato e letto Prigioniero sul pianeta inferno, il breve fumetto che Art scrisse per superare il trauma del suicidio della madre (riportato per intero nelle pagine di Maus). Si tratta di una storia incredibilmente intensa, disegnata con tratti espressionistici e molto personale, sconvolgente per Mala e anche – a quanto dice la stessa Mala – per Vladek, che cambia il suo approccio verso il figlio ma paradossalmente verso un rapporto di maggior fiducia; vedere che in qualche modo Artie ha superato a suo modo quella tragedia avvicina i due, nel ricordo di Anja (mentre si incrina sempre di più il rapporto tra Vladek e Mala).
E il racconto di Vladek procede poi, di capitolo in capitolo, (attra)verso tutte le vicissitudini passate da lui e Anja, nel ghetto, nei bunker costruiti per nascondersi, nelle cantine di chi ha dato loro una mano, nel campo di concentramento di (M)Auschwitz, attraverso la morte di tutti i loro cari, i genitori di Anja, il figlio Richieu, parenti, amici, conoscenti, attraverso le torture fisiche e ancora di più psichiche.
Attraverso la più grande tragedia, fino all’epilogo, tragico a sua volta, ma riconciliatorio.
L'inizio della storia: Art va a trovare il padre Vladek.
Padre o memoria storica? – Il dramma dei sentimenti
L’unicità di Maus in relazione al mondo del fumetto sta sicuramente nell’essere innanzitutto un’opera tragicamente autobiografica e personale (come la mini storia Prigioniero nel pianeta inferno). Anzi, direi doppiamente autobiografica, poiché da una parte c’è Spiegelman che parla di sé stesso mettendosi in scena come uno dei protagonisti principali, e dall’altra c’è Vladek che parla di sé stesso al figlio.
E alla fine è difficile dire tra le due vicende quale colpisca di più per la sua durezza, se la storia di Vladek attraverso la guerra e lo sterminio, o la storia di un padre e un figlio dal rapporto difficile. “Non lo vedevo da molto tempo. Non eravamo molto uniti” recita la didascalia nella prima vignetta del primo capitolo, e questa distanza personale si ritrova in tutta l’opera, Art si imbarazza e si sente in difficoltà ogni volta che il padre si intromette nei suoi affari (come quando gli butta via il cappotto vecchio) o vuole intromettere il figlio nei suoi (come quando parla del testamento e dell’eredità, o di Mala).
Quello che tuttavia colpisce, in effetti, è la spudoratezza con la quale Artie intervista letteralmente il padre sugli eventi che hanno segnato la sua vita, prende appunti, registra, e la freddezza con cui il padre restituisca un resoconto dettagliato e narrativamente organizzato degli eventi (al contrario di quanto accada in Prigioniero nel pianeta inferno, che più che il resoconto di un periodo di lutto è l’espressione di un sentimento). Sembra che Arthur sia interessato a Vladek più come memoria storica che come padre, ma la realtà è che Art sa bene che il carattere del padre non gli consentirebbe un racconto “sensazionale”, distorto dalle emozioni. Quello che più interessa ad Art è rispettare la memoria dell’olocausto, e lo fa rispettando la personalità del padre.
Il fatto è che Art Spiegelman aveva sviluppato sin da piccolo un fortissimo coinvolgimento emotivo nei confronti della tragedia della shoah grazie (o per colpa di) ai racconti dei genitori e al carattere burbero e anche un po’ ingombrante del padre. Sentiva quindi il bisogno di comunicare al mondo questa situazione interiore, e l’unico modo per renderla in maniera fedele ed eticamente accettabile era narrarla come a lui stesso era stata narrata, attraverso la stessa fonte, la stessa memoria storica.
In fondo si capisce ad ogni pagina che i due si vogliono tutto il bene del mondo, ma si tratta di due personalità difficili, segnate, solcate dagli eventi, restie ad avvicinarsi per prime ad un'altra persona, e per questo nessuno dei due fa il primo passo verso l’altro. Fino a che per Art non sarà inevitabile muoversi, o restare di nuovo prigioniero all’inferno.
Topi in trappola: Vladek e Anja entrano ad Auschwitz.
Uomini e topi – Il dramma dei corpi
Metafora, dicevo. A chi ha una pur impalpabile idea di quello di cui sto parlando non serve neanche che lo dica: Maus deve con ogni probabilità la sua fortuna all’azzardata forma allegorica (decisamente più orwelliana che disneyana) attraverso cui Spiegelman ha scelto di deformare il dramma delle vicende e dei rapporti umani. Ispirandosi in particolare a un racconto di Kafka (Giuseppina la cantante, ovvero il popolo dei topi), al Krazy Kat di George Harriman, e al film di propaganda nazista Der ewige Jude di Fritz Hippler, Spiegelman sceglie di rappresentare satiricamente gli ebrei come topi (maus, appunto). Quelli di Maus sono topi non caricaturizzati o resi simpatici e accattivanti come Topolino o Speedy Gonzales, ma “semplicemente topi”, topi stilizzati col corpo umano e la coda, o meglio ancora esseri umani in tutto e per tutto ma con la testa e la coda da topi. Non un topino divertente come protagonista, anzi il protagonista nelle varie vignette si distingue dagli altri solo grazie al dialogo, o a volte dai vestiti, ma una miriade di topi tutti uguali, come quelli scacciati dal Pifferaio di Hamelin dei fratelli Grimm, come tutti uguali erano gli ebrei agli occhi dei nazisti. Il topo in genere piace in quanto Davide che si ingegna per avere la meglio su Golia, ma il caso dell’olocausto è la più grossa dimostrazione di quanto sappia essere idiota l’essere umano, una razza che pretende di essere più evoluta degli animali ma in cui ancora troppo spesso vige la legge del più forte. I nazisti infatti sono gatti, gatti non grottescamente sfortunati come Tom o Silvestro, ma gatti cattivi, famelici e spietati, bracconieri, assassini. E così via, proseguendo con le metafore, i polacchi sono maiali, i francesi sono rane, gli americani sono cani.
Del resto è lo stesso Hitler, in vari passi del Mein kampf, ad appellare gli ebrei col dispregiativo di “ratti”; l’intento di Spiegelman infatti è di mostrare l’idiozia del razzismo nazista, che ha portato ogni uomo a sentirsi in dovere di comportarsi secondo il ruolo attribuito al suo gruppo etnico o nazionale, a fronte dell’uguaglianza tra tutti gli esseri umani. Così i gatti nazisti si sentono in diritto e in dovere di dare la caccia ai topi ebrei, i polacchi approfittano della situazione per dare sfogo al loro antisemitismo e alla loro bestialità, e via discorrendo.
Se gli esseri umani sono rappresentati come animali, gli animali non sono assenti, ma si fanno anch’essi veicolo di significati, comunicano quasi sempre un’idea, una sensazione, una situazione. Così, nella terzultima tavola del sesto capitolo del primo libro, all’ingresso del campo di concentramento di Auschwitz, un pastore tedesco col muso da t-rex e inferocito come uno squalo accoglie i deportati assieme ai nazisti-gatti, pregustando il massacro finale. Davanti a quella scritta “Arbeit macht frei” si perdono le speranze, sembra che nulla possa cambiare il proprio tragico destino; anche l’essere più forte del gatto si schiera a fianco di questo, anzi ne è succube, è al suo guinzaglio.
Nella diciottesima tavola dello stesso capitolo appare un ratto. Un ratto vero, uno di quelli che fanno ribrezzo e di cui si ha paura quando si scende in cantina al buio. Vladek e sua moglie Anja si stanno nascondendo proprio nella cantina di una signora polacca che offre loro aiuto, e Anja, sentendo dei rumori al buio, teme che si tratti di ratti! Il ratto c’è davvero, ma è nascosto dietro una botte, Spiegelman lo fa vedere solo a noi, Anja non lo vede, ma ne ha paura.
Un pastore tedesco al guinzaglio di un gatto, e un topo che ha paura di un ratto.
Un padre e un figlio che non riescono a conoscersi se non attraverso un registratore.
L’umanità messa in ridicolo, il dramma più atroce.
Oddio.
RispondiEliminaNon immaginavo che un argomento simile potesse essere affrontato tanto seriamente e tanto emotivamente con un fumetto. E che, soprattutto, potesse essere raccontato da un topo!
Non mi vergogno a dire che non avevo mai sentito parlare di questa graphic novel.
Comunque ora mi spiego perchè ci hai messo così tanto tempo... Credo che dietro ci sia una bella documentazione oculata.
BRAVO! ^^
in realtà, ora che lo posso dire, l'articolo l'ho iniziato ieri.
RispondiEliminae non ho scritto nulla, so già che se riprendo in mano il fumetto e ne rileggo un po' mi vengono in mente miliardi di cose da aggiungere.
ci starebbe bene un approfondimento più analitico. vedremo che ci riserva il futuro...
Ma è concluso?
RispondiEliminabeh... questo è concluso.
RispondiEliminapoi il discorso appunto si potrebbe ampliare. tanto basta sfogliare e commentare...
in realtà, ora che lo posso dire, l'articolo l'ho iniziato ieri.
RispondiEliminaEd io che ti volevo 'apparare'... -_-
stavo giusto per dire che Maus andrebbe insegnato nelle scuole.
RispondiEliminaSorprendente..ho appena letto il Dylan Dog ispirato a questo autore.
RispondiEliminaMi interessava giustappunto saperne di più
Quale Dylan Dog si ispira a Spiegelman?
RispondiEliminamm... sarà mica I vampiri?
RispondiEliminaNaaa..è Doctor Terror.
RispondiEliminaLe citazioni grafiche sono piuttosto dichiarate.
ah cacchio hai raggione... avevo anche capito le vignette a cui ti riferivi, ma non le ho collegate all'albo (come abbia fatto è un mistero, dato che Doktor Terror non solo è l'albo che parla più direttamente del nazismo ma anche uno dei miei preferiti).
RispondiEliminaHai dei gusti perversi.
RispondiEliminaavevo sempre pensato che i gatti e i topi di Spiegelmann mi ricordavano qualcos'altro... ma non ero mai riusciti a collegarli a Crazy Cat... quando ti ho letto ho avuto un'illuminazione. molto bella la recensione. e sono d'accordo, Spiegelmann andrebbe letto nelle scuole. purtroppo c'è ancora molta strada da fare perché le istituzioni riconoscano il fumetto come arte.
RispondiEliminaL'ho visto alla Feltrinelli proprio qualche giorno fa, fra i nuovi arrivi. In verità non l'avevo mai visto, ma sarà stato perchè non ci ho mai fatto caso. Appena riesco a racimolare qualcosa (sono davvero disperata, economicamente parlando), me lo prendo. Che poi ho fatto scadere tutti i punti della carta Feltrinelli... ARGH!
RispondiEliminaio ce l'ho....l'ho letto...è dire ke è un capolavoro è dir poco...
RispondiEliminabravo sandrix.
RispondiEliminabella rece
e soprattutto bellissima opera
erickd