15 maggio 2009

Dizionario: B (2) - C

Lo so, lo so.
Ho postato io anche la scorsa volta, ma che volete farci: siamo gente impegnata, e chi ha qualcosa di pronto posta (comunque su autorizzazione delle cape). In ogni caso i due post sono parecchio diversi: nonostante siano giappofili entrambi, uno è una recensione, questo... beh, questo è il dizionario (e non preoccupatevi, sta procedendo anche nelle altre lettere! Ho già tutto l'elenco delle parole che vorrei trattare - elenco che si amplia periodicamente O.O -, devo "solo" lavorarci decentemente)!
Approfitto di queste due righe per ricordarvi che siamo sempre in cerca di validi collaboratori, magari "esperti" di produzione "occidentale", il contatto email è sempre il solito!

Ah, nel caso ve lo foste dimenticati, il dittongo "OU" si pronuncia come una "O" lunga e traslitterato si può trovare anche come "ō" (ma è più facile scrivere "ou", quindi ho usato questo modo).

 
BENTOU = cestino per il pranzo
Indecisa fino all'ultimo se inserire questa voce, alla fine ho optato per dedicarle qualche riga, col proposito in futuro di ampliarne i contenuti (semmai mi passerà per le mani il materiale adatto).
L'usanza di preparare il bentou esiste solo vagamente in Occidente (le gavette di militari e operai, per capirsi...), mentre in Giappone è un elemento importante nei rapporti sociali.
Ha origini antichissime come pranzo al sacco dei cacciatori o dei contadini, ma a noi è arrivato sicuramente nella sua versione "scolastica": se nell'istituto manca la mensa e non si vogliono spendere troppi Yen al bar della scuola, è sempre meglio preparare a casa il bentou, magari da condividere con gli amici o, ancora meglio, da preparare per il proprio innamorato, con tanto di wursterl a forma di polipetto e decorazioni sul riso a creare un cuore.
Spesso capita si sentir parlare non di "bentou" ma di "o-bentou": al termine viene aggiunto il prefisso onorifico "o-", e questo può far intuire l'importanza data a quest'usanza.
Tutto ciò che volete sapere (e molto di più) sul bentou e relativo bentou-box (la scatoletta) su questo sito: non ha senso che io mi dilunghi oltre, quindi.
Esempi
1. La preparazione del bentou è ovunque: avrei voluto postare le immagini di qualche anime, ma non ho trovato esempi che mi piacessero... per ora vi cito alcuni casi veramente noti: i famosi bentou di Akane Tendo, immangiabili (da Ranma), o le valanghe di bentou che prepara Hikaru in Orange Road1...
2. Grazie alla segnalazione del sempre ottimo Deeproad, che credo conosca a memoria ogni variazione di fantasia sul costume tigrato di Lamù, eccovi un tipico esempio di bentou dell'amore: Lan rabbonisce l'insaziabile Rei con un pranzetto veramente oishii ("buono", "squisito", aggettivo da dedicare sempre e solo ai cibi). Esercizio: quante volte ripetono "bentou" nel filmato? E quante di queste hanno il prefisso onorifico? La soluzione nel primo commento al post! (e anche il link allo stesso pezzo in italiano).

BOKU = io
Dopo aver affrontato le problematiche della 2a persone singolare, passiamo brevemente in rassegna alcuni modi per parlare in prima persona.
..."Alcuni modi"? Beh, immagino sia ormai chiaro che i giapponesi hanno tanti di quei sistemi per rendere le gerarchie sociali che per un occidentale è impossibile star dietro a tutti! Proponiamo quindi solo una selezione dei pronomi che più si sentono negli anime, con uno scopo semplice: quando vediamo un anime tradotto in italiano e sentiamo parlare in prima persona, dobbiamo renderci conto che, nella traduzione, è inevitabilmente andato perso qualcosa. Purtroppo, non possiamo farci niente...
Domanda: come si può parlare in prima persona?
Per tutti
- Usando il pronome watashi: sempre corretto, sempre formale, buono per tutto e per tutti (maschi e femmine, adulti e bambini).
- Per chi vuole far finta di vivere tra samurai e daimyou, c'è anche il più "arcaico" watakushi: stesso kanji ma pronuncia leggermente diversa, tanto per dare quel senso di formalità d'altri tempi (negli anime si fa fatica a distinguere i due, dato che il secondo suona un po' come "watakshi")
Per i maschi
- Usando "boku": informale ma non troppo, adatto per parlare con persone che si conoscono e volendo sembrare un bravo ragazzo.
- Usando ore: è molto poco formale (eufemismo) e manifesta un atteggiamento sprezzante e a volte un po' maleducato... tra l'altro nel gergo della Yakuza (la solita mafia giapponese) si tende parlando a sottolineare le R, quindi questo pronome si presta bene all'uso.
Per le femmine
- Usando atashi, cioè il corrispettivo al femminile di "boku". Fa molto carino ed educato.
- Usando "ore", sapendo però che una ragazza che usa questo pronome risulterà maleducata, grezza, o semplicemente un maschiaccio.
- Usando il proprio nome: si tratta di un uso molto infantile ed è adottato dalle ragazzine che vogliono sembrare "kawaii" (= carine; Hello Kitty è l'esempio per antonomasia di "kawaii"). Sperimentiamone l'uso sul nick di una delle boss del blog, Utopia: siccome è tutta gentile e adorabile, in giapponese non direbbe "adesso vado a fare la spesa" (con "watashi" o "atashi"), ma "adesso Uto-chan va a fare la spesa! ^__^"
Insomma, più o meno...
Esempi
1. Educato e gentile, Honey di Host Club non è sempre stato così dolcettoso... nel suo passato aleggia lo spettro di un tentativo di "ingrezzimento", a cominciare col cambio del pronome da usare...
2. Asumu, protagonista del delicato Zettai Shounen2, viene dalla città: in un paesino di montagna i suoi modi di fare, garbati e un po' infantili, vengono subito derisi trasformando il suo uso di boku in un soprannome.




CHARACTER DESIGN (CHARA)
E' quella parte del lavoro che consiste nello studio grafico e nella caratterizzazione, in parte anche psicologica, dei personaggi della storia creati dall'autore (cit. Wikipedia).
Non è da confondersi coi bozzetti preparatori di un personaggio: la fisionomia e i modi di fare del soggetto sono già chiari al character designer, che si occupa di definire "solo" l'aspetto del personaggio e la sua espressività da vari punti di vista o concentrandosi su alcuni dettagli.
Quando in gergo, quindi, si parla di "chara" dei personaggi, ci si riferisce proprio alla loro resa grafica e a come in questa si riconoscono le loro caratteristiche psicologiche.
Nei manga il character designer in genere coincide col mangaka (se questo non è abbastanza famoso da avere un suo studio ben fornito di assistenti o se ci tiene ad avere pieno controllo sui suoi protagonisti), mentre per gli anime esiste una figura professionale autonoma che, come per i curatori dei fondali o per gli esperti di computer grafica, si occupa principalmente del "chara" dei personaggi.
Esempio
Un esempio illustre ci viene dallo splendido illustration book L'arte di Il castello errante di Howl 3, che raccoglie immagini dallo story board, bozzetti, chara, fondali e immagini dal film che ha dato piena fama internazionale al maestro dell'animazione giapponese Hayao Miyazaki.
Sfogliando il libro è possibile mettere a confronto l'evoluzione del protagonista dalla sua nascita alla sua dimensione animata: nello story board di Miyazaki, nei bozzetti preparatori curati dallo staff, nel chara (opera dei supervisori all'animazione Akihiko Yamashita e Takeshi Inamura) e infine nelle immagini direttamente tratte dal film.

CHIBI = nano, bambino
"Chibi" (letto cibi) in giapponese significa nano, bambino. Viene usato con entrambi i significati negli anime e nei manga, da solo o fuso col nome del personaggio, principalmente con due accezioni:
- può venir usato sottolineandone la componente sarcastica e diventando nella traduzione "nanerottolo, bimbetto";
- oppure, con un utilizzo legato alle tecniche di raffigurazione dei personaggi, definisce la versione "bambina" dei protagonisti di un anime o un manga. Con "Ranma-chibi" si intende per esempio il disegno di Ranma da bambino (spesso sono i fan a dedicarsi a quest'opera di "riduzione", con risultati estremamente kawaii).
Esempio
I casi in cui viene usato questo appellativo sono infiniti quanto le serie animate o illustrate, ma uno di questi merita di essere portato all'attenzione del pubblico di ImAl (per la serie, mai ci stuferemo di scoprire come Mediaset abbia ucciso l'animazione giapponese): mai sentito parlare di Chibiusa (per la cronaca, la ragazzina rompi*** che Bunny/Sailor Moon4 si trova tra i piedi)? E se vi dicessi che il suo nome si dovrebbe pronunciare "cibiusa", e che il nome originale di Bunny è Usagi (che vuol dire tra l'altro "coniglio")?
Ai bambini giapponesi deve essere sembrato subito chiaro, sentendo i nomi, quello che ora vado a spiegarvi: Chibiusa è il nome della piccola ("chibi") Usagi (la bambina infatti viene dal futuro ed è la figlia di Bunny/Usagi).
In versione Sailor, poi, l'italiano "Sailor Chibiusa" non ha certamente lo stesso impatto dell'originale "Sailor Chibimoon"... in questo secondo caso infatti si corre su più piani di interpretazione (immediatamente colti dal bambino giapponese, che in questi giochini ci sguazza): Chibimoon può essere letto come abbreviazione di "Sailor Chibiusa-Moon", ma anche come "Sailor Moon da bambina" e "Sailor Moon in versione nanerottola".
Per dovere di cronaca, se nella serie animata l'errore è sotto gli occhi di tutti, negli OAV (arrivati anche in Italia) i nomi originali dei protagonisti sono stati lasciati e la lettura del nome della piccola peste è quindi corretta.

COSPLAY = costume play, cioè recitare in costume
Non c'è proprio molto da aggiungere al lavoro di Doni1983 pubblicato su questo blog.
Mi limito a sottolineare come, in Giappone, la componente "tu SEI il tuo personaggio" sia marcatamente più accentuata che da noi (d'altronde fa parte della loro cultura - proprio cultura! - da molto più tempo che per noi).
Inoltre, se in un anime o un manga uno veste stranamente, la prima cosa che dice chi lo guarda è "cos'è, un cosplay?!" allo stesso modo in cui noi diciamo "ma è carnevale?!" Ciò che differenzia le due espressioni è che dietro al termine "carnevale" noi ci leggiamo solo un'idea di stramberia, mentre dietro a "cosplay" inevitabilmente c'è anche la parola "otaku", con tutto il background che questa si porta dietro.
Esempi
1. Oltre alle numerose citazioni praticamente in ogni anime o manga, esistono prodotti che proprio del cosplay parlano, come l'anime Cosplay complex5 o il manga Cosplay animal6 (dove protagonista è la tipica divisa alla marinara).
2. Otaku fissata col cosplay (e con qualsiasi cosa sia otakuesca) è Renge, di Host Club, che non può esimersi dal fare cosplay neanche in piscina con gli amici: ecco Renge "normale" (il vestito anomalo è la divisa femminile dell'Ouran), Renge "Quon Kisaragi" ( enigmatica protagonista di RahXephon7) e le due "insieme" nella mente della cosplayer. Nei commenti il video della comparsata cosplay e un paio di spiegazioni per i non addetti ai lavori!




NOTE


1 Kimagure Orange Road, di Izumi Matsumoto. Manga edito in Italia dalla Starcomics; anime di 48 episodi trasmesso da varie reti italiane col titolo E' quasi magia Johnny.
2 Zettai Shounen, di Tomomi Machizuki. Anime di 26 episodi recuperabile sottotitolato in italiano.
3 L'arte di Il Castello errante di Howl, di Hayao Miyazaki, Panini Comics, 2006.
4 Bishoujo senshi Sailor Moon, di Naoko Takeuchi. Manga edito in Italia dalla Star Comics, anime e oav trasmessi da varie reti italiane col titolo Sailor Moon.
5 Cosplay Complex, di Shinichiro Kimura. Miniserie da 3 oav recuperabile sottotitolata in italiano.
6 Cosplay Animal, di Sako Watari. Manga edito in Italia dalla Star Comics, tuttora in corso.
7 RahXephon, di Takeaki Momose. Manga di 3 volumi edito in Italia dalla Planet Manga, anime di 26 apisodi (+ un oav + un film) i cui diritti sono stati acquistati all'epoca dalla Shin Vision, fallita nel 2008 dopo aver dato alla luce solo 2 su 9 dvd. Ora il tutto dovrebbe essere passato alla ExaCinema/FoolFrame, che però pare non essere intenzionata a portare avanti il progetto, quantomeno a breve. Risultato? La serie con audio giapponese e sottotitolata dai fansubbers è stata ritirata e quindi è introvabile (sempre che qualche anima pia che conoscete non l'abbia recuperata all'epoca), e per la serie italiana siamo in alto mare...
Per gli altri titoli citati ma non segnalati in questa nota, si fa riferimento alle voci precedenti del dizionario.


Copyright di immagini e video degli aventi diritto; un ringraziamento va anche ai vari gruppi di fansubbers che diffondono in Italia le novità giapponesi.

Argomenti correlati: Dizionario: 1-10, Dizionario: A, Dizionario: B (1)

3 marzo 2009

Slam Dunk: quando è il disegno a fare la differenza (per me)

1991. Weekly Shounen Jump comincia a pubblicare Slam Dunk, il manga del talentuoso Takehiko Inoue per la prima volta alle prese con una storia lunga.
1993. Tv Asahi trasmette il primo di 101 episodi della versione animata del nostro manga.
1997. La Planet Manga adocchia il titolo e lo porta in Italia in volumetti con paginazione dimezzata rispetto ai tankoubon originali, 62 numeri al posto di 31, l'ultimo dei quali uscirà nell'estate del 2000.
2000. In autunno la programmazione dell'Anime Night di Mtv si arrichisce dell'anime Slam Dunk, cavalcando l'onda di un successo inaspettato.

Slam Dunk è famosissimo. Difficile che chi ha a che fare coi manga (anche solo marginalmente) non lo conosca, ma soprattutto impossibile che chi segue Mtv non l'abbia incrociato (o 7Gold e GXT che l'hanno riproposto): l'anime ha riscosso un successo se possibile ancor maggiore del manga, a riprova - semmai servisse - della forza del mezzo televisivo.

ShohokuTrama: una squadra di basket composta unicamente da pazzi scatenati tenta la scalata al torneo nazionale, "capitanata" simbolicamente (anche perchè è l'ultima delle riserve) dal più scatenato di tutti, Hanamichi Sakuragi. Partita dopo partita, non solo Hanamichi scoprirà di poter rendersi utile, ma anche i suoi compagni di squadra inizieranno a credere fermamente nell'impresa, che può riuscire solo con la collaborazione di tutti.
Un po' stringata? Accontentatevi: storia, personaggi e quant'altro li trovate sulla Wikipedia; il mio scopo ora è quello di tentare una "recensione" un po' critica dell'opera, ma soprattutto di paragonare l'edizione cartacea a quella animata, possibilmente spingendo i fruitori della seconda tra le pagine della prima (no, la Planet Manga non mi paga per farlo).


IL MANGA

Ci sono vari fattori che mi fanno amare il manga di Slam Dunk, ma direi che i principali sono:
- è il primo manga che ho letto
- è disegnato da dio.
E i due fattori sono collegati, perchè me l'hanno prestato dopo aver notato che mi piaceva disegnare.
Poi ho amato la storia, i personaggi... potrei dire qualcosa su ognuno di loro (Hisashi Mitsui in testa!) e magari prima o poi lo farò, ma al momento è altro che mi preme maggiormente trattare.

Sto sfogliando il manga, e vedo quant'è ancora acerbo il tratto di Inoue.
Siamo nei primissimi anni '90 e il mangaka fino a quel momento aveva creato solo storie brevi1, quindi certe pecche a Slam Dunk si possono tranquillamente perdonare: ombre scarse o assenti, la definizione delle pieghe degli abiti e delle "sporgenze" del corpo affidata ai soli tratti di penna e per la profondità ci sono i sempiterni retini ("pecche", poi... molti manga si appoggiano unicamente su queste tecniche). Eppure il suo disegno mi ha colpito fin da subito: per la precisione dei dettagli, per la scelta di disegnare realisticamente volti, corpi, movimenti... scelta assolutamente non scontata, anche se si parla di sport: tutti abbiamo presente l'assurdità di certe pose in notissimi prodotti su calcio, pallavolo, tennis (devo fare sul serio dei titoli o vi sono venuti in mente immediatamente, neanche fosse un caso di imprinting?).
Il Dottor T. invece (come si definisce lo stesso Inoue in alcune brevi comparse nella storia) il basket ce lo insegna sul serio: tendendo i muscoli dei suoi personaggi quando saltano, immortalando rivoli di sudore e smorfie di stanchezza, posizionando correttamente le mani sul pallone per un tiro libero (pallone che non si deforma, eh! Occhio che questo non è un dettaglio da poco!).
Inoue comunque non rinuncia certo alle classiche "storipiature" delle fattezze dei personaggi, ma lo fa con uno scopo preciso: essendo un'opera su giovani liceali teppisti e fuori di testa, il maestro fa largo uso del Super Deformed (alcuni esempi nelle immagini poco sotto), tecnica da sempre usata per sottolineare idiozia, ironicità, sottintesi e personalità nascoste. Eppure anche il Super Deformed va via via diminuendo con l'avanzare della storia e la crescita dei personaggi.
E insieme ai suoi ragazzi, anche Inoue cresce. Ce lo dimostra a modo suo, nei disegni: le tavole a colori  degli ultimi numeri (che purtroppo sono in bianco e nero nel manga e si trovano in versione originale solo nell'Illustration Book2, forse in Slam Dunk Deluxe3) offrono un flash sulla maestria del sensei con pennello, pennarello, pastello o china: Inoue adora giocare col chiaroscuro, sempre contrastatissimo, e mischiare le tecniche classiche del manga - china e retini - a strumenti inusuali4.
Vi faccio un paio di esempi, così spezzate la lettura con qualche immagine:

Hanamichi e KaedeKaede Rukawa e Hanamichi Sakuragi esultano dopo l'unico caso di collaborazione volontaria tra i due eterni rivali.
La tavola originale a colori è realizzata a pastello; inevitabilmente se ne perde la forza cromatica nell'edizione del manga, dove il rosso acceso delle divise (e dei capelli di Hanamichi) si perde in un bicromatico chiaroscuro, ma nulla viene comunque tolto alla forza emotiva dell'immagine, riassunto di rabbia, stanchezza, velocità e gioia. Adoro Inoue.

Foto di gruppo Foto di gruppo per tutto il team dello Shohoku, supporters compresi.
L'allegria dell'occasione in cui la foto viene scattata (non vi anticipo nulla, leggete il manga, anche perchè nell'anime questo momento manca) è tutta presente nelle ampie chiazze di colore fortemente chiaroscurate della tavola originale. Purtroppo in bianco e nero l'effetto non è altrettanto d'impatto: i rossi e i blu si fondono inevitabilmente in aree scure e mal definite... La tavola e il momento per il quale è stata realizzata mantengono comunque un fascino particolare e gli amanti del manga non possono non trovare, dietro l'espressione di ogni personaggio, tutte le motivazioni che l'hanno spinto fino a quel punto.

Insomma, siamo agli albori del realismo che in Real5 e Vagabond6 (con tecniche molto diverse) vediamo portato su carta. E sto solo parlando di realizzazione grafica, eh. E di un prodotto - ripeto - acerbo e in molte parti immaturo.
Non mi spingo a parlare della storia o dei protagonisti perchè lo scopo di queste righe è principalmente il paragone con l'anime: l'anime infatti segue la storia abbastanza fedelmente, a parte alcuni inserti per dare un tocco shoujo o alcuni passaggi - francamente inutili - che semplicemente accentuano l'aspetto demenziale dell'opera. Ah, e l'anime non si conclude. Insomma, non avrebbe senso fare un paragone sul lato della narrazione.


L'ANIME

Beh, e allora parliamone, di quello schifo di anime (non ho mezze misure, lo so...).

1 2 3Sempre per spezzare, vi offro un paio di scansioni dal manga (sono pagine consecutive che raccontano un particolare "difetto" di Hanamichi; ricordo che i balloon dei manga si leggono da destra a sinistra e dal basso in alto) che potrete leggere e poi paragonare col video dell'episodio corrispondente.

Fate i vostri debiti paragoni e forse potrete intuire da soli la risposta alla seguente domanda: perchè l'anime è un prodotto pessimo, secondo la sottoscritta?

Ecco le mie risposte:
- Perchè ha un chara obbrobrioso, che niente c'azzecca con l'ottima prova del sensei Inoue: i personaggi risultano sproporzionati e scoordinati, il colore assurdo (il "rosa" degli incarnati è inumano oltre che piatto e bidimensionale) e gli sfondi sono semplificati a delle banalissime immagini standard;
- Perchè si è voluto caricaturare i personaggi nei loro modi di fare, parlare, agire, si nota chiaramente dal paragone manga/filmato. Un esempio a caso per chi conosce la serie: evidentemente gli adattatori hanno pensato che la strafottenza di Kaede Rukawa non venisse sufficientemente resa da Inoue, che sceglie per lui un modo di fare silenzioso e arrogante soprattutto nei confronti di Hanamichi (Inoue gioca tutto su piccoli balloon via di mezzo tra frasi sussurrate e pensieri inespressi: "tanto sbagli", "idiota" etc.); nell'anime parla veramente un po' troppo, e con quel doppiaggio che mi fa accapponare la pelle l'effetto finale è di caricatura eccessiva del suo disprezzo per il protagonista. Già non è un personaggio simpatico, così poi...
- Perchè il doppiaggio italiano, come appena accennato, è vergognoso. E per la scelta delle voci (cavolo, ma Rukawa ha 15 anni! Avete mai sentito un 15'enne parlare come mio nonno?), e per il continuo farsetto cui nessuno dei personaggi pare immune (in pochi minuti di video praticamente solo Akagi non parla in maniera idiota), e per la traduzione (volgare, esagerata, forzata per non so quale motivo: neanche anime ben più pesanti, con protagonista magari la yakuza, arriverebbero a espressioni tanto idiote e/o eccessive);
- Perchè praticamente è la brutta copia del manga, creato per cavalcare l'onda di personaggi amatissimi in patria e all'estero: l'aggiunta di pezzi più shoujo e la mano pesantissima sulla demenzialità sono la prova lampante della ricerca di consenso tra tutte le fasce pubblico. Un prodotto di cui non sentivo il bisogno, sinceramente, e forse anche in Giappone a un certo punto è stato così, dato che l'anime si ferma alla qualificazione per i campionati nazionali mentre il manga va ben oltre (risparmiandoci in effetti il pessimo adattamento delle tavole di cui vi ho offerto le scansioni più sopra).

In conclusione... lo so, lo so: i fan dell'anime di Slam Dunk sono veramente tanti, molti hanno cominciato a leggere il manga dopo aver visto l'anime e ringraziano Mtv per aver permesso loro questa piacevole scoperta... eppure non mi capacito del fervore con cui difendono un prodotto scadente che dalla sua non ha neanche la scusa dell'età (molti anime contemporanei e precedenti Slam Dunk lo doppiano di brutto a qualità).
Sentirmi rispondere "mi piace perchè fa ridere" non mi aiuta certo a capire... il manga è ben più ironico... ma magari c'è chi ride se scrivo "caccapupù caccapupù", eh.
Però sono comunque una persona di larghe vedute, se qualcuno trova modo di ribaltare le mie tesi ben venga. A voi!





NOTE

1 Storie brevi dalle quali tra l'altro pesca alcune idee (usanza per nulla rara tra i mangaka), come il personaggio di Kaede da Kaede Purple (1988), somigliante solo per nome e aspetto al Kaede Rukawa di Slam Dunk.
2 Slam Dunk Illustration Book, edito in Italia dalla Planet Manga.
3 Il successo di Slam Dunk ha spinto la Planet Manga a riproporlo prima in una collection di 31 numeri (come i tankoubon originali) e poi in un'edizione "di lusso": formato più grande, carta più spessa, sovracoperta, prezzo proibitivo, per citare alcune novità. Chissà come mai la Deluxe pare non aver avuto molto successo, tanto che al momento la pubblicazione sembra sospesa e rimandata a data da destinarsi... credo quindi ignoreremo per un pezzo come realizzeranno le tavole prese ad esempio in questo articolo.
4 Solo un accenno al manga Buzzer Beater, realizzato dal mangaka originariamente per il web e poi pubblicato - in un formato anomalo peraltro - su carta. Nel primo numero dell'edizione italiana (by Planet Manga) si legge in seconda di copertina: "[...] Il mio tratto a un certo punto è cambiato (dal 9° capitolo, n.d.Miz.), perchè mi sono slogato l'indice della mano mentre stavo giocando a pallacanestro. Allora ho iniziato a usare il pennarello, potendo così disegnare senza premere troppo. Poi mi sono reso conto che le linee realizzate dopo questo infortunio si vedevano meglio sullo schermo".
5 Real, manga edito in Italia dalla Planet Manga (serie in corso con periodicità biblica).
6 Vagabond, manga edito in Italia dalla Planet Manga (serie in corso).

6 febbraio 2009

Looney Tunes & Merrie Melodies

Nati dalla matita e dalla penna di Harman e Ising, i Looney Tunes e le Merrie Melodies rappresentano una colonna portante della storia della Warner Bros, in quanto è il prodotto più longevo e duraturo in quegli anni, secondo solo alle serie prodotte dagli studi Disney. Non a caso, i due scenografi che diedero vita al primo lungometraggio animato della Warner, Sinkin' in the bathtub (1930), venivano dagli studi Disney, dove avevano collaborato al progetto Alice Comedies; dal 1933 in poi, Ising e Harman passarono agli studio della MGM , mentre le Merrie Melodies e i Looney Tunes rimasero sotto il marchio della alla Warner Bros, continuando a riscuotere il successo meritato nel susseguirsi degli anni.
Con l'introduzione del colore, le Merrie Melodies fecero un gran passo in avanti, abbandonando per strada il progetto iniziale di promuovere le canzoni dei film Warner, fino ad unirsi ai Looney Tunes.
A partire dal 1930 fino agli inizi del 1940, la maggior parte delle puntate della serie ha come protagonista Bosko (divenendo Buddy al passare con la MGM di Ising e Harman), un personaggio nato dalla matita di Ising con tratti caratteristici degli afroamericani. Tale caricatura creò non pochi problemi ai due scenografi; infatti, alcune puntate della serie di Bosko vennero censurate dalla United Artists, in quanto offendevano appunto la sensibilità di quegli spettatori di colore, nonostante sia Ising che Harman negavano che Bosko fosse una loro caricatura.
Bosko non fu l'unico personaggio a prendere vita in quegli anni; a quel periodo appartengono anche Honey, la sua fidanzata, e Bruno, un cane che lo accompagnava ad ogni suo avventura. Al passaggio con la MGM, e con l'abbandono di Ising e Harman alla produzione delle Merrie Melodies e dei Looney Tunes, nella lavorazione degli episodi vennero introdotti scenografi e registi quali Avery, Jones e Clampett, che produssero e crearono dal 1935 in poi quelle che sarebbero state le pietre miliari dei Looney Toones, tra cui i celeberrimi: Porky Pig, Duffy Duck e, al finire degli anni trenta, Bugs Bunny.
Porky Pig
Porky Pig nacque nell'ambito delle Merrie Melodies, divenendo presto un simbolo di quegli anni tanto da comparire nei titoli di testa e sbarcato in Italia con il nome di Pallino; ha l'aspetto di un maialino ingenuo e credulone, che farfuglia parole senza senso.
Inizialmente, le sue avventure si basavano su canti e balli ma presto si passò a trame più elaborate; col passare degli anni, fu messo in sordina fino a divenire una semplice comparsa nelle storie degli altri personaggi. Non a caso, i primi corti di Duffy Duck e Bugs Bunny, nati entrambi come semplici comparse, avevano come protagonista un Porky Pig in versione cacciatore.

Duffy Duck
Duffy Duck è un papero nero dal becco arancione e dal collo circondato da una striscia bianca; nacque nel 1936 con Avery, in un cortometraggio in cui vi era anche Porky Pig. Ha un carattere decisamente forte, contraddistinto da un atteggiamento furibondo che salta fuori, il più delle volte, quando viene scambiato per un'anatra, facendolo apparire il personaggio sicuramente più collerico agli occhi degli altri protagonisti. E' spalleggiato il più delle volte da un ingenuo Porky Pig e arriva alla soluzione sempre prima del suo compagno che, pertanto, esce irrimediabilmente sconfitto alla fine di ogni avventura. Altre volte invece lo si vede alle prese con il cacciatore Elmer Fudd o con la sua nemesi, il coniglio Bugs Bunny.
Una curiosità di questo personaggio è che nacque come spalla di Porky Pig, e con il passare del tempo i due ruoli si invertirono per via dell'enorme successo che Duffy Duck ebbe con il pubblico, il quale si immedesimava maggiormente nel personaggio del papero.

Bugs Bunny
Se nel primo decennio dei Looney Tunes e delle Merrie Melodies, Bosko rendeva la vita difficile a Topolino&C., sul finire degli anni trenta fino alla fine degli anni sessanta, sarà Bugs Bunny il rivale per eccellenza della Walt Disney. Nato nel 1938 come semplice comparsa per il corto Porky's Hare Hunt, in cui Porky Pig personificava un cacciatore e Bugs Bunny era la sua preda, divenne ben presto un efficace sostituto di Duffy Duck che, oramai, era già nell'Olimpo della Warner Bros.
Fu Tex Avery a dare al celeberrimo roditore della Warner la sua odierna personalità nel 1940, in un corto dal titolo A Wild Hare in cui comparve anche il cacciatore Elmer Fudd (conosciuto in Italia con il nome di Taddeo): se Duffy Duck personificava un perdente, colui che le tentava tutte ma poi si vedeva sopraffatto dal suo destino, il “Coniglio” – così chiamato dalla maggior parte dei suoi antagonisti – rappresentava una personalità vincente nell'immaginario del regista Jones; nessuno poteva tenergli testa, sia in termini di intelligenza che di astuzia, facendola in barba agli innumerevoli nemici, i quali si passavano il testimone ad ogni puntata (tra i più famosi ricordiamo: Duffy Duck, Taddeo il cacciatore, Bafforosso Sam).

Taddeo
Mentre Bugs Bunny e Duffy Duck relegarono in poco tempo Porky Pig a ruoli secondari, Taddeo (o Elmer Fudd) il cacciatore, mise definitivamente da parte il maialino nel ruolo di cacciatore, facendolo divenire di fatto una semplice comparsa o spalla di altri personaggi. Nato un anno prima di Bugs Bunny, divenendo famoso in un corto in cui compare un primo prototipo del suddetto coniglio, è fra le poche personalità umane dei Looney Tunes e ha come unico obiettivo la caccia a Bugs Bunny o a Duffy Duck, fallendo il più delle volte e non portando così a casa la sua tanto desiderata cena.
Nonostante il personaggio sia minore rispetto agli altri, Taddeo rende celebri alcuni degli episondi della Warner; ricordiamo, infatti, il famoso episodio What's Opera, Doc?, in cui Taddeo e Bugs Bunny inscenano un'opera lirica di Wagner che, tra canti e scene ironiche – ricordando la celebre cavalcata delle valchirie rifatta da Taddeo – si conclude con un finale a sorpresa, in cui Bugs Bunny viene ucciso dal suo nemico, chiudendo la puntata con una domanda rivolta al pubblico “Che vi aspettavate in un'opera, il lieto fine?”. Altri episodi degni di nota sono quelli in cui vediamo Taddeo alle prese sia con Duffy Duck che con Bugs Bunny in una famosa trilogia “Stagione del Papero/Stagione del Coniglio” in cui vediamo Bugs Bunny destreggiarsi con maestria tra le trannelli di Duffy e le pallottole di Taddeo, riuscendo infine ad averla vinta.

Silvestro & Titti
Nati a metà degli anni quaranta dalla matita di McKimison e Jones, Silvestro e Titti rappresentano una delle coppie più prolifiche della televisione. Le vicende dei due sono incentrate principalmente sui tentativi di gatto Silvestro di cacciare il canarino Titti, difeso a spada tratta dalla Nonna, un'anziana signora americana che non ci pensa due volte a prendere ad ombrellate sul capo il felino quando lo sorprende molestare l'uccellino, oppure a mandargli contro, negli episodi più recenti, un bulldog di nome Ettore.
Le avventure richiamano in qualche modo quelle di Tom & Jerry, nonostante siano molto differenti: infatti, nonostante sia Silvestro che Tom siano due gatti pasticcioni, il primo cerca ogni modo, dal rincorrere alla preda al camuffarsi, per raggiungere il suo obbiettivo, mentre il secondo utilizzava alle volte degli stratagemmi, vere e proprie trappole che poi gli si sarebbero rivoltate contro. Jerry è fin da subito noto per la sua furbizia, celata dietro ampi sorrisi; Titti, invece, mostra un'aria ingenua e dolce mentre si rivela fin dal primo momento un pennuto un astuto e furbo.
Degno di nota è un episodio dal titolo "Mi è semblato di vedele un gatto" in quanto richiama la celeberrima frase che Titti recita ogni qualvolta intravede il povero Silvestro: in tale puntata,il goffo gatto, reduce da aver appena mangiato un canarino, le tenta tutte per averla vinta con Titti, fino a farsi sopraffare del tutto quando il canarino chiama in causa il cane Ettore.
In definitiva, Silvestro e Titti rappresentano una coppia effervescente, capace di stupire ad ogni puntata ma il canarino non ha l'esclusiva del suo compagno: in alcuni episodi delle Merrie Melodies & Looney Tunes, si vede Silvestro alle prese anche con Speedy Gonzales.

Willy E. Coyote e Beep Beep
Mentre in Silvestro e Titti (come nella maggior parte degli altri corti Warner) ascoltiamo ogni tanto dei dialoghi tra il gatto ed il canarino, in questa serie, nata nel 1948 ad opera di Chuck Jones, regna invece il silenzio tra i due protagonisti, interrotto solo dal Beep! Beep! del Road Runner.
Willy E. Coyote, come suggerisce il nome stesso, è un coyote del deserto del Nevada, alle prese con un Road Runner, un uccello molto veloce che ha le sembianze di uno struzzo dalle piume color azzurro che, nella realtà, esiste davvero ed il cui nome scientifico è 'Geococcyx Californianus. Anche in tal caso, Beep Beep non è partner fisso per l'altro protagonista: Willy E. Coyote, alcune volte, lo vediamo alle prese anche con Bugs Bunny.
Il coyote utilizza spesso e volentieri svariate trappole, di marchio 'ACME' (la società fittizia presente nei vari corti dei Looney Tunes ed usata dai vari personaggi), che, però, puntualmente gli si ritorcono contro; un'altra particolarità della serie è basata sull'uso dei cartelli da parte di Willy: difatti, ogni qualvolta che cade in un crepaccio o gli sta per cadere un masso addosso, il coyote tira fuori dal nulla un cartello con su scritto “Ahi”.

Yosemite Sam
Nasce dalla matita di Freleng nel 1945 con il nome di Yosemite Sam, nelle vesti di antagonista assoluto di Bugs Bunny. In Italia è conosciuto come 'Dinamite Sam' o come 'Baffo Rosso', a causa dei suoi lunghi baffi rossi che quasi toccano terra.
Il personaggio è caratterizzato da statura molto bassa, schiena inarcata e voce urlante, nonché con i suoi caratteristici baffi rossi; inizialmente concepito nelle vesti di cowboy, ricoprì svariati ruoli all'interno dei corti: cavaliere, pirata, cuoco, il tutto per rendere difficile la vita al coniglio che, puntualmente gli metteva i bastoni tra le ruote.
La differenza sostanziale tra Il cowboy Sam e il cacciatore Taddeo sta nel fatto che il primo si presentava agli occhi del pubblico come un farabutto, capace solo di distruggere e far del male, sempre pronto a tirar fuori le sue pistole e sparare, mentre Taddeo si presentava come persona troppo buona e ingenua per tener testa a Bugs Bunny.

Speedy Gonzales
Nasce nel 1953 da McKimison e Freleng; le sue vicende sono narrate in Messico e sono tutte incentrate su Speedy Gonzales, il topo più veloce del mondo, che ha fra gli antagonisti anche il gatto Silvestro e, successivamente, Duffy Duck.
Veste con un pocho bianco portato con un largo sombrero di paglia; ha il viso tondo e sorridente ed il più delle volte è accompagnato da suo cugino Rodriguez, che è il suo esatto opposto. Come nelle altre accoppiate della Warner – Silvestro e Titti, Willy E Beep Beep – Silvestro e Duffy Duck sono costretti alle umiliazioni più tremende a causa del topo il quale, grazie alla sua velocità, sfugge ad ogni loro trappola.


Considerazioni Finali
Nonostante Looney Tunes e Merrie Melodies fossero molto diversi fra loro ed inizialmente incentrati per lo più su canti e balli (sopratutto quelli della Merrie Melodies), imitando così le due serie della Disney che erano ante qualche anno prima, con l'introduzione del colore, i Looney Tunes e le Merrie Melodies divennero sempre più simili, fino a cancellare quella diversificazione che c'era tra di loro.
Ciò che diversificò i personaggi dei Looney Toones da quelli della Disney, fu la creazione di situazioni surreali in un mondo che però era molto vicino alla vita reale, lasciando invariate le caratteristiche corporali e abitudinarie dei personaggi (come, ad esempio, la naturale caccia di un gatto nei confronti di un uccello), a differenza dei cartoni di zio Walt nei quali le avventure erano ambientate in un mondo totalmente immaginario, che vestiva paperi, cani, gatti e topi, dando loro una personalità umana, case, macchine e un lavoro.
Nei Looney Tunes, invece, non notiamo questa totale umanizzazione dell'animale: ad esempio, nonostante Bugs Bunny abbia un intelletto sopraffino, conserva ancora le caratteristiche peculiari di un coniglio (scavare buche, mangiare carote, velocità) e non indossa vestiti; inoltre, la maggior parte dei nemici che incontra sono umani.
In più la maggior parte delle storie si basano, oltre su vere e proprie trame create dai vari registi della Warne Bros (da Avery a McKimison a Jones), anche su favole, fiabe e racconti celebri (come ad esempio le favole dei Fratelli Grimm di Andersen o le parodie su Robin Hood), dando così alle varie trame, oltre un senso ironico, anche una vena culturale.
Non a caso, nonostante siano passati quasi 80 anni da quel lontano 1930 in cui Ising e Harman hanno messo piede alla Warner dando vita a queste due serie di cartoni, esse sono rimaste intramontabili e indimenticabili nelle menti di passate generazioni, restando nei loro cuori e conquistando quelli delle nuove generazioni.
Da sinistra verso destra: Garlo, Willy E Coyote, RoadRunner, Pepé Le Pew, Bugs Bunny, Duffy Duck, Speedy Gonzalez, Porky Pig, Elmer Fudd, Yosemite Sam, Titti & Silvestro.

19 dicembre 2008

Ci siamo, ci siamo...

... Non preoccupatevi: ImagoAltrove c'è ancora!
E' stato un periodo di impegni intensi per tutti i membri, ma torneremo presto!
Nel frattempo, vi auguriamo buone feste!



Lo staff di ImagoAltrove.

31 luglio 2008

Biancaneve e i Sette Nani

Nella concezione moderna del Cinema d’animazione, Walt Disney è sinonimo di banalità e di prodotto edulcorato da svendere ad un pubblico ben preciso (quello dei più piccoli), senza la volontà di aggiornarsi e di esprimere l’arte del disegno animato per esondare le dighe della produzione commerciale. Tralasciando il fatto che ciò è comunque abbastanza discutibile, specialmente se si prende in considerazione quella  fase intermedia, collocabile negli anni novanta - da Il Re Leone a Il gobbo di Nôtre Dame, passando per Pocahontas -  immediatamente precedente rispetto all’avvento del digitale e del disegno al computer, il quale ha distolto l’attenzione dai contenuti per concentrarla sulle incredibili potenzialità del nuovo mezzo tecnico, può dirsi che così facendo si rinnegano completamente gran parte delle radici mitiche della narrativa moderna, costruita, come si sa, anche sull’evoluzione  della fiaba. Infatti la maggior parte dei  capolavori targati Walt Disney sono letteralmente modellati su questo archetipo letterario.
A cominciare da SnowWhite and the Seven Dwarfs (Biancaneve e i Sette nani), del 1937, primo lungometraggio del colosso dell’animazione,  a cui prese parte attivamente lo stesso Walt Disney, i legami indissolubili al mondo della fiabe, delle leggende e di molta narrativa tramandata spesso oralmente, in forza delle credenze popolari, del fascino ancestrale della leggenda e del potere che esse hanno sempre avuto sui popoli emergono diffusamente, sotto molteplici aspetti.
La trama, a ben vedere, è effettivamente tratta da una celebre fiaba del fratelli Grimm e narra - con l’aggiunta di un finale romantico e per questo, molto spesso, anche maggiormente disprezzato -  delle vicissitudini della giovane Biancaneve, principessa bella e bistrattata dalla perfida regina Grimilde, invidiosa della sua grazia e per questo spinta a commissionarne l’uccisione ad un cacciatore, il quale, frenato dalla sua  coscienza proprio sul punto di commettere l’omicidio, consente alla sua vittima di fuggire e di rifugiarsi in un bosco, nel quale farà la conoscenza di sette nani minatori che le offriranno protezione tentando di nasconderla alla malvagia sovrana.
Ad un’analisi puramente superficiale, in realtà, Biancaneve potrebbe apparire come un manieristico, seppur magnificamente riuscito, esercizio di stile. Ed effettivamente è proprio intorno ad  uno stile fin da subito estremamente peculiare che quest’opera fa perno. Si è già detto molto, in questo post, circa l’introduzione delle Silly Simphonies nell’ambito delle serie animate disneyane, ma soprattutto riguardo al loro ruolo di innovazione stilistica, di espressione da un lato manieristica, dall’altro, invece, vero e proprio mezzo di rivoluzione contenutistica, che fuggisse dalla realtà – sempre e comunque carica(turizza)ta – di Topolino, per andare a raffigurare un Mondo mai esistito, ma che rispecchiasse le tensioni e i desideri repressi nella coscienza collettiva di una società scontenta ed imperfetta. Ecco, Biancaneve parte proprio da qui. Dalla trasposizione in lungometraggio, da un insistere più professionale, se vogliamo, a seguito delle numerose sperimentazioni nelle serie ad episodi, di questo modello di film d’animazione. Un cinema del disegno che rifugga la realtà per rappresentarne una idealizzata.
Perciò non può esistere modo migliore che quello di prendere spunto dalla fiabe e dalle favole popolari.


Fin dall’impianto stilistico di questo film, è evidente come Walt Disney abbia curato con estrema puntualità il rapporto fra idea e materialità, fra concetto astratto e rappresentazione della fisicità. Nulla è certo in Snow White, ma ogni elemento pare poggiare su un terreno fragile e quasi vacuo, in cui il tratto marcato cede il posto ad un relativismo formale difficilmente riscontrabile, comunque, nei lavori che seguiranno questo esordio disneyano nel lungometraggio. Seppur la fiaba rimanga, per buona parte della filmografia di Walt Disney e dei suoi “discendenti”, il fulcro della poetica della scuola d’animazione di Burbanck, comunque Biancaneve e i Sette nani è il film che meglio amplifica questi concetti di idealizzazione d’ogni elemento filmico compreso nel disegno, tanto da dilatarli all’inverosimile.
Pinocchio rinuncerà ad attenersi fedelmente al libro originale, continuerà a riferirsi con espliciti rimandi alla mitologia nordica, in ossequio proprio al legame con il mondo fiabesco, ma tenderà, tuttavia, a concentrarsi con estrema solerzia sulla caratterizzazione del personaggi, sulla loro evoluzione, perfino sulla loro peculiare visione di quel mondo inventato. Cosa che in Biancaneve non accade. Qui si ha fin da subito una mancanza di punti certi, un contesto corale che via via va intensificandosi, spostando il baricentro dell’opera dal personaggio centrale della protagonista ad una serie di caratterizzazioni che prendono forma e senso solamente nella loro organicità complessiva. Le creature del bosco, i sette nani, la strega Grimilde, sono tutti personaggi che non godono di una specifica personalità, ma sono riconoscibili (o irriconoscibili) per tratti comuni e leggibili unicamente in virtù di qualche legame con altri personaggi. In questo senso Biancaneve e i Sette nani è il film più idealistico e meno materiale di Walt Disney. Gli sfondi acquerellati, che si modellano e si plasmano, come già detto, sulle Silly Simphonies, non offrono la possibilità di contestualizzare e di attualizzare l’opera, di rapportarla al mondo odierno, ma staccano immediatamente la percezione dello spettatore da qualsivoglia legame dialettico con la realtà. Il personaggio inizialmente isolato di Biancaneve, presentato solamente dopo la regina Grimilde  - la quale incarna il Male – si sbiadisce sempre di più su questo paesaggio a cui manca la certezza dei contorni definiti, perde la propria personalità, la propria identità, per andare a raffigurare più un’idea, forse la traduzione in segni grafici di un canone, piuttosto che l’interpretazione di un carattere, di un personaggio, appunto. E a ben vedere, l’unico personaggio i cui tratti grafici sono più marcati è proprio Grimilde, la quale, in qualche modo, sveste i panni dell’idea per andare a configurarsi come fisicità, come Male materializzato.
Il messaggio di quest’opera è effettivamente banale, come molto spesso accade nel Cinema. Ma è il modo di raccontarlo che lo rende unico. Il Bene è da preferirsi al Male. Due idee contrapposte. Ma Walt Disney mette in risalto, forse nascondendo un po’ di pessimismo, dietro a quella facciata di zuccheroso romanticismo, che il bene, per essere davvero tale, debba per forza fuggire dalla sfera degli istinti, della pragmaticità, della materialità, per pulirsi da ogni segno pronunciato, da ogni legame terreno, fino a rendersi un’idea spuria di qualunque riferimento fisico. E’ inutile negare che la bellezza di Biancaneve è in realtà quanto di più distante dal concetto di bellezza che da sempre abbiamo in mente. Per un essere umano la bellezza è prima di tutto fisica, sensoriale, non ideale. Biancaneve, invece, sembra rinnegare e spegnere proprio ogni istinto (prima di tutto sessuale), rinunciare ad ogni stimolo erotico, per andare a rappresentare una bellezza canonica che non era mai stata presa in considerazione, nella sfera dei sensi o degli istinti. La bellezza di Biancaneve è ciò che la bellezza dovrebbe essere. E come qualcuno ha già rilevato, è un concetto che è estremamente antitetico a quello dell’istinto, che invece, qui, va a caratterizzare il Male. Mi piacerebbe che la dimensione psicologica che il concetto di “pulizia” assume in quest’opera non passasse inosservato. I rimandi a quest’idea sono davvero frequenti: fin dalla tecnica dell’acquerello (che richiama appunto una mancanza di tratti decisi, di istinti e, quindi, rimanda all’idea di visione acquatica, pulita, spesso addirittura slavata ed incerta), per arrivare alle scene in cui Biancaneve pulisce, insieme agli animali del Bosco, la casetta dei Sette nani, per giungere al bagno forzato di Brontolo. L’istinto deve essere lavato via da una purezza idealistica, concettuale.


Se si sposta l’attenzione sul personaggio della Regina -  la quale, comunque, sempre in virtù di questo relativismo spinto, riesce a non concedere punti saldi nella percezione, ma cambia, nella mirabile sequenza della metamorfosi, sconvolgendo quella bellezza, che era convinta le appartenesse, in un  nuovo aspetto quasi aberrante – si noterà che i segni che la contraddistinguono sono in verità molto più pronunciati, calcati rispetto a quelli di Biancaneve. La sua bellezza fisica e materiale va necessariamente a contrapporsi ai tratti attutiti, attenuati, spesso confusi della grazia di Biancaneve. Grimilde offre fin da subito spunti di ambiguità e infonde immediatamente inquietudine nello spettatore: ombreggiature insistite, contrasti in chiaroscuro, che derivano, ovviamente, anche dal contesto paesaggistico in cui è disegnata, che è appunto l’interno tetro e tenebroso del suo castello. Biancaneve, al contrario, che rappresenta l’innocenza idealistica, manca di linee sicure, ma si configura come un personaggio semplice, che richiami addirittura alla fisionomia di una bambina (il capo sproporzionato rispetto al corpo, il viso tondeggiante, il naso appiattito, la pelle chiarissima, la totale assenza di seno), priva di ombreggiature, tranne quelle necessarie a renderne credibile il dinamismo, complice anche, ovviamente, il paesaggio solare che introduce il personaggio fin dall’inizio.


Insomma, se per ogni caratterizzazione, in realtà, si rifugge generalmente proprio l’idea stessa di caratterizzazione, attribuendo senso e significato a tutto solo nella dimensione collettiva e corale, può tuttavia dirsi che la personalità emerga maggiormente nella rappresentazione di Grimilde, la quale ostenta fin da subito istinti materiali, passioni, sentimenti, invidia, tensioni fisiche: cerca in uno specchio (dall’immagine algida e fredda, dalla superficie vitrea, ferma e sicura) non ciò che è, ma ciò che fortissimamente vuole e perciò deve essere.
Ed infatti non è la sua immagine a riprodursi sul vetro, ma quella di un servo, una sorta di maschera teatrale (quasi il simbolo della mistificazione, della recitazione, della perdita dell’identità, della finzione) frutto di un incantesimo, che da sempre le rivela ciò che ella vuole sentirsi dire, ma che in un impeto di verità le farà notare che la più bella del reame (ma nell’originale addirittura the fairest of them all, la più bella di tutte) non è più lei, ma la giovane ed innocente principessa. E così Grimilde acquista significato in virtù del legame con questo non secondario personaggio. In parallelo, Biancaneve cerca in un pozzo l’amore ideale, senza minimamente curarsi della sua immagine (ancora una volta, guarda caso, acquatica) che si riflette sul fondo della cisterna, invocando il sentimento in nome di una speranza, di un sogno, ma assolutamente non di una ferma e convinta (nonché egoistica) volontà.
E pure il personaggio del cacciatore, che a suo modo riassume il contrasto particolarmente violento che si sottolinea fra educazione ed istintività, non deve essere trascurato. Costui esercita una professione che già di per sé è fortemente inerente alla sfera degli istinti. E proprio in virtù di questi, la Regina gli comanda di uccidere Biancaneve, pretendendo come prova che le riporti il suo cuore in un cofanetto. Ma proprio sul punto di commettere il crimine, il cacciatore, disegnato sempre con tratti decisi, ma inclini a sottolineare il contrasto interiore che vive  - pelle scura/occhi azzurri, barba e capelli lunghi/cappello con piuma soffice, abbigliamento dal colore acceso e cupo allo stesso tempo (un giallo ocra particolarmente ambiguo) – cede alla forza della purezza di Biancaneve. Prevale l’educazione, ciò che è bene e ciò che è male, il saper riconoscere il limite ed il confine fra lecito e l’illecito, fra ciò che si può e ciò che non si può fare.
Un mondo di istinti che Biancaneve stenta a comprendere, fin dal momento stesso in cui fugge dal cacciatore per rifugiarsi nel bosco. Ma si tratta di una foresta letteralmente infestata di esseri che inizialmente paiono deformi a Biancaneve, quasi stesse vivendo un incubo (espressionista) dove i colori si confondono e tutto si sconvolge in un delirio di occhi, sguardi e passioni al culmine della loro esplosione.
In realtà Biancaneve scoprirà che quegli istinti (gli animali del bosco) non sono connotati negativamente, come quelli di Grimilde, bensì, al pari di quelli dei Nani – dei quali a breve farà la conoscenza – sono espressione di una naturalità selvaggia ma genuina, al limite dell’infantilismo.
Gli stessi sette nani, a soffermarsi sulla loro caratterizzazione, per riprendere quanto detto prima, sono l’emblema tanto dell’istinto, quanto della presa di forma e senso solamente in un contesto collettivo.
In effetti noi li conosciamo come I Sette Nani, senza quasi mai soffermarci a pensarli o a ricordarli ad uno ad uno. Ciascuno di essi rappresenta una tensione, un carattere, preso singolarmente, ma che da solo significa ben poco e solo nel suo insieme ci riconduce alla sfera sensoriale ed istintiva del genere umano: c’è Brontolo che palesa atteggiamenti ostili. Eolo che non riesce a frenare le sue allergie e le sue violente manifestazioni incontrollate che da esse derivano. Mammolo che agisce d’impulso, con il cuore, senza mediare con la ragione. Dotto, che dovrebbe essere quello più illuminato fra tutti, e che invece è sempre piuttosto agitato, tanto da ingarbugliare le parole e da incepparsi frequentemente mentre parla. Pisolo, che non si cura della presenza della Principessa e si abbandona costantemente al sonno, come è sua abitudine. Gongolo, che non conosce problemi e incertezze, e nella sua spensieratezza risulta essere sempre inconsapevolmente allegro. E infine Cucciolo, che è talmente infantile da non saper neppure parlare. Non sono personaggi evoluti, ma rimasti fermi ad uno stadio di non crescita; non per nulla sono “nani”, nell’accezione più razzista del termine. Ed infatti Biancaneve è fortemente contaminato da un manicheismo di stampo razzista, o comunque improntato sulla paura del diverso, quando non del reietto, che è visto come incarnazione del male: il bianco è sempre sinonimo di purezza, il nero sempre di malvagità; l’altezza è sinonimo di panteistica intelligenza (forse anche di ingenuità, ma comunque si tratta di un’inconsapevole capacità di essere madre di tutte le idee, i concetti), la bassezza è invece lo specchio di un istinto che rimane bloccato e che è impossibilitato a comprendere il tutto, specialmente le idee; la giovinezza è sinonimo di purezza, la vecchiaia significa invece inganno e crudeltà; infine, la bellezza interiore è bene, quella esteriore, pur essendo funzionale alla prima, è e rimane il mezzo per comunicare l’idea di integrità morale e di completa realizzazione (im)personale: il principe che con un bacio arriverà a salvare la principessa in preda al sonno mortale, quando i nani erano giunti in ritardo, mancando all’appuntamento con la crescita, la riabilitazione, con l’evoluzione. Gli stessi istinti che i nani o gli animali rappresentano, non sono in fin dei conti negativi come quelli di Grimilde. Si tratta di passioni allo stato brado, selvagge, per così dire, mai domate, che necessitano dell’educazione (la pulizia) proprio di Biancaneve. Ma i tratti di questi personaggi non sono violentemente negativi come quelli della Regina/strega, bensì naïf, infantili, anch’essi privi di contorni duri.
Biancaneve e i Sette nani è quindi, riassumendo, l’emblema di come il Cinema -  anche d’animazione, il quale è uno stile, una tecnica, opera degli uomini e non “di uomini” -  sia davvero un mezzo per raccontare e per comunicare. Se il suo messaggio rimane ancorato ai concetti obsoleti e talvolta negativi delle fiabe - xenofobi ed antropocentrici, che via via comunque spariranno, anche nei lungometraggi Disney, per lasciare lo spazio all’esaltazione della natura incontaminata (da Bambi a Il Re Leone) se anche talvolta ostinatamente incentrata sull’antropomorfismo dei personaggi (Le avventure di Bianca e Bernie), spesso comunque rappresentante una lotta continua fra il mondo onesto degli animali e quello corrotto degli esseri umani (Red e Toby) – il modo in cui li racconta, pur senza mai perdere di vista il fatto che è un’opera di largo consumo, destinata alle famiglie, ai bambini e ad infondere un certo senso di “educazione” nei suoi destinatari (concetti che stridono fortemente con quello di arte), è sempre incontestabilmente sublime. Come valeva, in ben altri ambiti, per artisti quali Frank Capra, John Ford o, su fronti ancora differenti, Dzjiga Vertov o S. M. Ejsestein.
Sintomo che, nonostante le finalità, se il risultato complessivo è soddisfacente, tutto sommato, si possono chiudere non uno, ma anche due occhi e, proprio staccandosi dal contatto con la realtà, farsi trasportare in quel mondo magico che è sempre stato il Cinema. Anche quello disegnato. Anche quello firmato Walt Disney.