11 maggio 2008

Prima che Cristina D'avena uccidesse i nostri sogni e le nostresperanze...

Dall'alto dei miei stimabilissimi quattro anni osservo il microfono davanti ai miei occhi. Sarebbe stata la performance di una vita. Un intero anno trascorso davanti alla TV avrebbe finalmente fruttato una rispettabile carriera da rock star. Chiudo gli occhi per godere appieno del mio momento di gloria. Quando li riapro il basso ha già cominciato a pompare un riff infernale, accompagnato da una batteria violenta e martellante. Il mio abito glitterato avrebbe inevitabilmente condizionato le mode del decennio alle porte. La folla è in delirio, visibilmente rapita dalla mia voce incisiva e graffiante, esaltata dai trascinanti cori di una band numerosa ed esperta. Le tastiere diffondono nell'aria quell'alone mistico e visionario capace di dare forma ai fotogrammi partoriti dall'immaginazione, come in un trip ad alto contenuto acido.
Terminata l'esibizione osservo le urla eccitate di un pubblico che pende letteralmente dalle mie labbra. Ma ecco che la pressione del tasto Stop, seguito dal rumoroso riavvolgimento del nastro, mi riportano immediatamente alla realtà. Mia nonna mi osserva con quel fare amorevole misto a compassione che solitamente si riserva a un cucciolo dalle fattezze buffe mentre si accinge a fare qualcosa di insolitamente goffo: "Adesso la riascoltiamo dall'inizio e poi registriamo Anna dai capelli rossi, d'accordo?". "D'accordo!", rispondo io con voce esile e vagamente effeminata che ben si addice a un moccioso della mia età.
Da qualche parte conservo ancora quelle registrazioni: Astro Robot, Anna dai capelli rossi, Paul e Nina e forse anche Capitan Futuro. E oltre a quelle conservo anche una piccola collezione di 45 giri originali, di cui in effetti gradirei poter rientrare in possesso quanto prima. Purtroppo è tuttora custodita sottochiave nelle oscure segrete della villa di mia nonna, che tanto fu amorevole nell'acquistarli, quanto carogna nel non volermeli cedere. "Quando morirò", ripeteva sempre. Il vero problema è che mia nonna è moribonda da almeno cinque anni, ma non accenna a voler abbandonare definitivamente questo pianeta. Sembra quasi che qualcuno l'abbia mesmerizzata nella speranza che la sua essenza continui a vivere a dispetto del totale disfacimento fisico.
Inutile dire che ormai le speranze di poter recuperare quella manciata di 45 giri sono pressoché pari allo zero. Che sia una sorta di pena del contrappasso? Mi spiego meglio: all'età di cinque anni ebbi tra le mani la più grande collezione di 45 giri legati al mondo delle sigle che si possa immaginare. A dire il vero non è che fosse proprio mia. Era della mia migliore amica, nonché vicina di casa, Claudia. Annoverava un po' di tutto, dalle sigle più conosciute a quelle più ricercate, per un totale di una sessantina di pezzi (forse più), molti dei quali oggi come oggi farebbero gola a parecchi collezionisti del settore. Ebbene, quella collezione oggi, grazie alle mie famigerate doti vandaliche, non esiste più. Accadde una mattina. Io e Marco, ci introducemmo furtivamente in casa di Claudia durante la sua assenza e sequestrammo l'intera collezione accuratamente riposta in un contenitore di legno colorato. Ci recammo quindi in una zona deserta non lontana dalle nostre rispettive abitazioni e lì procedemmo alla strage: trasformammo quei 45 giri in veri e propri frisbee da spiaggia e ce li lanciammo uno ad uno sulla lunga distanza, fino a quando non si frantumarono tutti quanti sull'asfalto. Ricordo ancora l'espressione della piccola Claudia al suo ritorno e le successive sgridate da parte dei nostri genitori a dir poco imbestialiti. Non so esattamente cosa mi spinse a compiere quel tremendo gesto distruttivo, ricordo soltanto che lì per lì mi parve una buona idea per far trascorrere il tempo.
Tutto questo per dire che, se ancora oggi il destino rema contro la mia esplicita volontà di rientrare in possesso di quei pochi pezzi che compongono la mia collezione, probabilmente lo devo anche a questo.

In quegli anni comunque non avevo ancora maturato una vera e propria passione per le sigle dei cartoni animati. Intendiamoci, le ho sempre trovate emotivamente coinvolgenti, forse per la natura stessa della sigla. Tuttavia non mi appassionavano al punto da sentire la necessità di approfondire l'argomento con la conoscenza di interpreti ed episodi legati alla loro realizzazione. Quello accadde solo in seguito, all'età di circa ventidue anni, quando per puro caso mi accorsi che quelle sigle erano ancora reperibili in versione estesa nei meandri oscuri del selvaggio Web. Ed ecco quindi che riascoltandole ritrovai quelle stesse emozioni che mi avevano accompagnato durante l'infanzia. Fu solo col senno di poi che fui capace di rivalutare ed apprezzare gli intricati meccanismi che si celavano dietro quel piccolo e meraviglioso microcosmo ricco di sensazioni.
All'epoca Cristina D'avena non era stata ancora inventata e l'universo delle sigle si presentava competitivo e variegato: competitivo perché a quel tempo le sigle venivano date in appalto a più complessi che presentavano la loro versione del brano nella speranza che venisse scelto e poi mandato in onda; variegato perché questo sistema a commissione stimolava le capacità creative di molti validi gruppi o artisti che in alcuni casi la sorte non aveva concesso loro di far carriera come musicisti tradizionali. Jeeg Robot è stato il primo cartone animato trasmesso dalle televisioni private italiane. La sigla non è altro che una rivisitazione in lingua italiana del pezzo originale: il brano è stato convertito in mono, tagliato di una strofa e modificato con l'aggiunta di una traccia strumentale. Si dovette optare per questa soluzione perché il cartone animato sarebbe dovuto andare in onda solo due giorni dopo e non sussisteva dunque il tempo materiale per incidere una sigla tutta nuova. Venne così reclutato tale Roberto Fogu (in arte Fogus) che in breve diede vita alla canzone che tutti abbiamo ascoltato e canticchiato almeno una volta.
Il brano tuttavia non venne venduto immediatamente, c'erano ancora numerose reticenze in merito a un'eventuale distribuzione commerciale. Mariano Detto, proprietario della CLS Records, riteneva infatti che nessuna sigla avrebbe potuto fare successo a meno che non fosse stata trasmessa dalle reti RAI e negò dunque il consenso alla pubblicazione. Dopo qualche tempo tuttavia, per mera curiosità, decise di domandare al suo distributore romano se ci fossero state delle richieste in merito a una sigla dal titolo Jeeg Robot. E fu allora che si rese conto del suo clamoroso errore di valutazione: le richieste c'erano state ed anche piuttosto numerose. Il distributore di Roma ordinò ventimila copie del quarantacinque giri, che venne così stampato in fretta e furia. In ogni caso i risultati in termini di vendite lasciarono alquanto a desiderare, dato che nel frattempo la RCA ne aveva approfittato per distribuire nei negozi una cover della suddetta sigla, realizzata dai Superobots. Senza contare che la copertina del 45 giri di Fogus, contrariamente a quello dei Superobots, non mostrava Jeeg in tutto il suo meccanico splendore, bensì un mostro nemico dalle inquietanti sembianze. Insomma, una scelta sbagliata dietro l'altra compromise il successo di questo 45 giri, ma permise al tempo stesso di comprendere la portata potenziale di un vero e proprio mercato delle sigle, non più circoscritto ai prodotti trasmessi dalla RAI.
Per molto tempo sulla sigla di Jeeg circolò la leggenda secondo cui a cantarla sarebbe stato nientemeno che un giovanissimo Piero Pelù. Inutile dire che questa affermazione, alla quale ho sempre faticato a dar credito per tutta una serie di ottime ragioni che ora non starò qui a spiegare, si è rivelata nel tempo una banale leggenda metropolitana.
Ad ogni modo non fu questo l'unico episodio in cui una sigla italiana venne rimaneggiata direttamente dall'originale. Accadde anche per le due sigle di Ryu, il ragazzo delle caverne. Credo invece che Mazinga Z, pur essendo anch'essa una cover della rispettiva sigla giapponese, sia stata completamente riarrangiata. In rari casi si è arrivati addirittura a non modificare per niente il brano d'apertura giapponese, probabilmente più per mancanza di tempo che per assecondare una precisa scelta di marketing: è il caso di Zambot III o L'invincibile Shogun, tanto per fare qualche esempio. Sigle che nonostante tutto sono entrate comunque a far parte della memoria storica di ogni appassionato. Certo, in maniera alquanto ironica e grottesca, visto che poi i testi venivano reinterpretati da noi marmocchi in chiave sarcastica e, spesso e volentieri, pornografica. Ma ci hanno comunque segnato.



A farla da padrone erano soprattutto I Cavalieri del Re, c'è poco da fare. E non tanto per il numero di sigle incise o per il valore effettivo delle stesse, quanto piuttosto per le voci particolarmente incisive di Riccardo Zara e Clara Serina. Riccardo Zara ha cantato la sigla di Devilman, mentre Clara Serina, tanto per fare chiarezza, ha dato voce alla prima sigla italiana di Lady Oscar (che a me personalmente non è mai piaciuta, ma che pare riscuotere ancora oggi enorme successo tra gli appassionati). Nonostante il loro aspetto tremendo (a metà tra gli Abba e I Cugini di Campagna), che per fortuna all'epoca nessuno conosceva, bisogna ammettere che I Cavalieri del Re son stati comunque capaci di sfornare alcune tra le sigle più belle e meglio arrangiate del panorama italiano: Il libro Cuore in primo luogo; ma anche Lo specchio magico, Kimba o L'isola dei Robinson. Si trattava essenzialmente di ballate in vecchio stile, caratterizzate da soluzioni armoniche di tutto rispetto. Forse gli appassionati più giovani avranno avuto modo di apprezzarli soprattutto per la bellissima sigla della serie Caro Fratello, intorno alla realizzazione della quale si può tranquillamente affermare abbiano dato davvero il meglio.
Tuttavia già all'epoca le mie preferenze vertevano più che altro sul rockeggiante, il che mi portava a preferire altri artisti ed altre sigle, come ad esempio i Rocking Horse (interpreti di Candy Candy, Toriton, Il dr. Slump e Arale e della magnifica Forza Sugar), i Superobots (Blue Noah, Babil Junior) o la Superband (Fantaman e Supereroi, due tra le più belle sigle di sempre). Tutti questi complessi vedevano alla voce il grande Douglas Meakin che, con quella sua cadenza straniera e quel falsetto terribilmente irritante, riusciva a rendere tutti i suoi pezzi facilmente riconoscibili.
Da non dimenticare poi i Fratelli Balestra, pure loro simili nell'aspetto ai protagonisti di una soap sudamericana degli anni '70. Ottimi soprattutto per le soluzioni armoniche a più voci (in stile Cavalieri del Re) e per via di tre pezzi assolutamente memorabili: Daitarn III, Teppei e X Bomber. Daitarn III in particolare è forse ancora oggi la sigla più amata ed apprezzata di sempre, data la sua melodia semplice ed efficace, accompagnata da un arrangiamento che definire perfetto sotto tutti i punti di vista è addirittura poco.
Altro complesso degno di nota furono gli Oliver Onions, gli autori che in assoluto ho preferito. E non solo perché hanno firmato alcune delle sigle a cui sono maggiormente legato, quanto perché si può tranquillamente affermare che non abbiano mai interpretato una sigla che possa definirsi brutta: Rocky Joe, Galaxy Express, le due sigle di Marco Polo e via dicendo. Che poi, per dirla tutta, la loro carriera discografica si è estesa ben oltre l'universo dei cartoni animati, come ben sa chiunque sia cresciuto con le pellicole di Bud Spencer e Terence Hill. Un complesso coi controcazzi insomma, che probabilmente avrebbe meritato qualcosa di più in termini di successo, ma che comunque può vantare una carriera di tutto rispetto nell'ambito delle colonne sonore. Anche loro d'altronde peccavano in termini di immagine, dato che sul palcoscenico avevano tutta l'aria di due figli dei fiori fricchettoni con chiare tendenze omosessuali.
C'erano poi due grandi voci femminili, morbide e calde come poche. Erano quelle di Giorgia Lepore e Stefania Mantelli. La prima interprete di Conan, il ragazzo del futuro, La fantastica Mimì e Peline story; la seconda voce solista del coro Le Mele Verdi, nonché artefice della memorabile interpretazione di Mademoiselle Anne.



Purtroppo col tempo il sistema di assegnare le sigle in appalto venne meno e in breve il mercato fu letteralmente fagocitato dalla voce di Cristina D'Avena. Non che la povera Cristina non abbia mai cantato belle canzoni, intendiamoci, ma senza quella giusta dose di competitività e concorrenza che aveva caratterizzato il mercato discografico tra la fine degli anni '70 e la prima metà degli anni '80, la qualità media delle sigle proposte cominciò progressivamente a scadere. Come se questo non bastasse, ogni qual volta un vecchio cartone veniva ritrasmesso in TV sulle reti nazionali, si affidava (e si affida tuttora) a Cristina l'ingrato compito di registrare una nuova sigla, decretando così la definitiva sepoltura di un contesto musicale florido e ricco di intense emozioni quale fu l'universo delle sigle di un tempo.
A volte mi domando quale sorte avrebbero avuto i robottoni giapponesi se a cantarne le sigle fosse stata la D'Avena. Sarebbero stati altrettanto affascinanti e coinvolgenti? Ed io li avrei guardati con gli stessi occhi? Probabilmente a quest'ora sarei più rincoglionito e traumatizzato che se fossi cresciuto con i lungometraggi della Disney: non fumerei, non sarei dedito all'alcool e neppure sognerei la distruzione del Mondo a cavallo di una macchina ipertecnologica dalle fattezze umanoidi. Cosa che invece prima o poi farò, questo è chiaro.



Scritto da Deeproad

21 aprile 2008

Dizionario: B (1)

Inizialmente avevo pensato di trattare la A e la B nello stesso post. Poi, vista la lunghezza finale della A, ho deciso che avrei messo B e C insieme. Alla fine ho dovuto pure dividere in due la B...  al momento, studiando i miei appunti per le prossime voci, sono piuttosto convinta che potrò mettere la seconda parte della B e la C insieme. Ma forse è meglio non cantare vittoria troppo presto...

Nel caso ve lo foste dimenticati, il dittongo "OU" si pronuncia come una "O" lunga e traslitterato si può trovare anche come "ō" (ma è più facile scrivere "ou", quindi ho usato questo modo).


BAKA = stupido
I giapponesi non hanno molte parolacce, e tra queste gli insulti sono solo una parte. Il più diffuso è indubbiamente "baka", di cui esistono anche le varianti un po' più forti di Bakamono e Bakayarou (i primi due caratteri dei tre termini significano sempre "baka", ma si è scelto di scriverli per "baka" in Hiragana, per "bakamono" in Kanji e per "bakayarou" in Katakana: i tre modi sono assolutamente "intercambiabili", ma l'uso di un modo rispetto ad un altro può essere una scelta del mangaka al fine di trasmettere un diverso contenuto - per Hiragana e Katakana si rimanda alla voce A del dizionario).
AGGIUNTA DEL 24.04.08: non so perchè non l'ho messo prima, ma credo sia utile avere un vocabolario di insulti un minimo ampliato... scherzo, ovviamente, volevo solo aggiungere un paragone tra "baka" e Ahou (o Aho, scritto in katakana - quindi come se fosse in grassetto - e con la O breve). I due termini sono sinonimi, ma c'è una sfumatura importante da sottolineare: in base alla zona del Giappone, "baka" può risultare più offensivo di "aho" o viceversa. Nella regione di Tokyo "aho" risulta più pesante ed è quindi usato, in anime e manga, soprattutto da delinquenti e simili, mentre nella regione di Osaka è il contrario: ricordiamo che il giapponese che sentiamo e leggiamo in film, anime, manga è quello di Tokyo, e che quindi sarà sempre o quasi usato "baka" per questioni più "leggere" (come negli esempi) e "aho" per insultare con vero gusto. Eventualmente nei commenti vi posto un esempio, così potrete pronunciarlo correttamente in caso di necessità!
Esempi
1. Molti sono i casi in cui, negli anime, la giovane protagonista si rivolge allo sventurato di turno con questo epiteto. Spesso è un semplice "nome-del-tipo no BAKA!!!", ma non è raro che arrivino a sotterrarlo letteralmente di "baka". Tra tutte, comunque, nessuna ha la classe di Akane Tendou1...
2. Nella traduzione italiana di Neon Genesis Evangelion2 la suscettibile e - diciamolo - isterica Asuka Soryou Langley chiama Shinji (l'amorfissimo protagonista) "Stupishinji": non è un brutto modo per rendere nella nostra lingua il "bakashinji" originale.
3. Capita spesso che, come nell'esempio 2, il nome venga storpiato per inserire questo simpatico aggettivo, ma il livello di fusione dei due termini è raramente tanto alto come in Zero no soukoushi3, dove il protagonista Kanade viene chiamato dalla cugina "Cretinade" in italiano - non male come resa - ma che in giapponese deve essere stato sicuramente "baKanade".
NB. Attenzione a non confondere BakAmono con BakEmono: quello che avrebbe potuto essere solo un insulto colorito diventerebbe un'offesa seria...

BAKEMONO = mostro
...E infatti, ecco il termine appena citato: può essere tradotto con "mostro", "fantasma": una creatura che fa paura, che non ha fattezze umane... o un umano che ha perso completamente la sua umanità. Un Vampiro è un bakemono, così come un killer spietato, ma sicuramente i bakemono più noti sono i mostri classici, quelli della mitologia giapponese: in questo contesto un sinonimo di bakemono è youkai.
Animali, piante o oggetti troppo grandi o che raggiungono età impensabili (detti mononoke), ombre misteriose che intravvediamo nella foresta o fenomeni inspiegabili (come i fuochi fatui) hanno generato in Giappone come da noi delle tipologie specifiche di creature entrate senza difficoltà nell'immaginario collettivo.
Esempi
Si è voluto accennare ad alcuni tra i più noti mostri tra quelli usati in anime e manga; chiaramente eventuali aggiunte e proposte sono come sempre gradite, inoltre nei commenti non mancheranno approfondimenti e curiosità che non verranno aggiunte in questa voce per non appesantirla.
- Kappa. Ne esistono tantissime specie e gli avvistamenti non si contano: è la caratteristica bestia fluviale via di mezzo tra una rana e una tartaruga, alta circa un metro, dispettosa e vagamente idiota, coi "capelli" tagliati a mò di chierica e identificabile da una puzza penetrante di marcio. Da dispettoso può spesso trasformarsi in pericoloso, quando afferra e trascina in acqua bambini e bestiame. In Saiyuki4 Goku chiama sempre Gojyo "pervertito di un kappa": non che Gojyo assomigli a un kappa, anzi! Semplicemente si fa riferimento allo spunto per questo manga/anime, e cioè al libro Viaggio in Occidente, nel quale si narrano le vicende di un bonzo, una scimmia nata da una roccia, un maiale e un kappa, appunto... Lunga storia, quella di questo importantissimo romanzo...
- Kasabake e Rokurokubi. E' l'animazione che mi spinge, volente o nolente, ad accogliere nella stessa voce questi due mostri: chi infatti non ricorda tra i gruppi spettrali dei cartoni animati quel buffo ombrello con una gamba (kasabake) e la donna col collo lunghissimo (rokurokubi)? Il kasabake ("kasa" = ombrello, "bake", appunto, mostro) è solo uno dei tantissimi esempi di oggetti che, dopo cent'anni, ottenevano un'anima, e le notti buie solo lievemente richiarate dalla luna devono aver contribuito al loro "processo di animazione"... Sembrerebbe essere solo dispettoso, nel suo aggirarsi sghignazzando per le strade notturne, con la lingua fuori e l'unico occhio piantato sul viandante che lo incrocia. La rokurokubi invece è meno benevola: di giorno è una comunissima donna, ma di notte usa il suo lungo collo per infiltrarsi nelle stanze e succhiare l'anima di chi dorme. Per l'esempio sfruttiamo un passaggio di un un episodio di Lamù5 gentilmente segnalatomi da Deeproad, ed è un classico: Atavu Movoboshi (come lo chiama la ragazzina) si addentra in un cimitero, con tutte le conseguenze inevitabili del caso...
- Kitsune. Ha l'aspetto di una volpe, ma è a tutti gli effetti una creatura magica: maestra nel trasformismo, predilige farsi passare per essere umano per poter così agevolmente truffare e prendere in giro gli uomini. Di kitsune negli anime e nei manga ce n'è un'infinità: da Shippo di Inuyasha6, a Youko Kurama, la seconda personalità di Shuichi Minamino in Yu degli Spettri... Ho scelto un'immagine da Naruto7 perchè il suo è indubbiamente un caso di "kitsunetsuki", cioè di possessione da parte di un demone volpe, e non uno qualsiasi: è Kyuubi, il demone volpe a nove code di cui si raccontano moltissime leggende in Giappone. Una curiosità: quando piove col sole, in Giappone si dice che da qualche parte si sta svolgendo un kitsune no yomeiri, un corteo di nozze delle volpi.
- Tanuki. E' una sorta di procione simile a un tasso, esiste veramente e come per la volpe ha dato origine a numerose leggende e aneddoti misteriosi. Ha capacità metamorfiche e può trasformarsi sia in umano che in mostro o oggetto; a lui si riconducono un'infinità di scherzi, rumori (prodotti dal tamburellare sulla propria pancia), disturbi e imbostate: molte apparizioni mostruose riportate dalle leggende sono senza dubbio opera sua. Un gran rompiscatole molesto, insomma, niente a che vedere con la furba (e vendicativa) kitsune... Nell'immagine, sempre da Inuyasha, compare Hachiemon, il servitore del monaco Miroku: un grosso e grasso, tonto e pauroso tanuki. E' stato scelto per poter fare un esempio da anime e manga, come negli altri casi, ma credo possa incuriosire di più il fatto che Mario, star del videogioco Super Mario Bros. 3, possa trasformarsi in tanuki e diventare così una statua di jizo (comportamento tipico del nostro mostro)...
- Tengu (AGGIUNTA DEL 30.04.08; grazie a InitialDwe e Deeproad per le segnalazioni nei commenti, che ho ripreso in parte per creare la voce). Il tengu è una pericolosa, in quanto irascibile, vendicativa e arrogante, creatura che abita montagne e foreste. La sua rappresentazione più diffusa é quella di un volatile antropomorfo con la faccia rossa e un lungo naso. Sono creature dagli enormi poteri e valorosi combattenti, a volte considerate alla stregua di divinità (v. commento #33 di Dwe). Secondo Shigeru Mitsuki (l'autore dell'Enciclopedia illustrata cui ho fatto riferimento) l'origine del mito dei tengu è da ricercarsi nella presenza di  asceti ed eremiti sulle montagne giapponesi: credo però che a pensarla così si perda una parte del fascino di questo mostro... Nell'immagine c'è Kurama, la principessa dei Tengu, che in Lamù sono extraterrestri (vi rimando al commento #39 di Deep - che ha trovato l'esempio - per un breve approfondimento).
- Akuma, Oni... e Magia! Oni e akuma sono alcuni tra i tanti tipi di bakemono, e sono anche sinonimi tra loro. Significano entrambi demone, diavolo, ma naturalmente esistono sfumature di significato ed usi specifici, che per noi che non viviamo in Giappone è difficile comprendere. Proviamo a farci comunque un'idea...
Vi pregherei di far caso al legame che c'è tra i termini Oni, Akuma e Mahou ("magia") aiutandovi coi kanji dell'immagine. Akuma, abbiamo detto, significa "demone", e viene associato soprattutto all'idea occidentale di "creatura degli inferi": è composto da due parti, AKU- scritto col kanji che vuol dire cattivo e -MA con quello che da il concetto di entità demoniaca. Questo secondo kanji compare anche nel termine Mahou insieme ad -HOU, il cui kanji vuol dire regola, metodo: insomma, le regole che permettono il controllo del mondo demoniaco. Brrrrr. Infine, credo abbiate notato come, all'interno del kanji che sta per MA-, tra i tanti disegnini (il termine tecnico è radicali) ci sia anche quello che vuol dire ONI... Non resta che chiarire cosa sia un oni: beh, è il diavolo per i giapponesi, spesso di carnagione scura, grosso e muscoloso e dotato di corna zanne e sguardo truce. Beh, a voi le conclusioni!
Ah, di akuma si parla in D.Gray-man (e infatti chi li caccia ha la qualifica di esorcista), e per chi non lo sapesse, Lamù è senz'ombra di dubbio un oni!

Per concludere, segnalo il testo cui ho fatto riferimento e da cui sono tratte le immagini dei mostri: l'Enciclopedia dei mostri giapponesi, di Shigeru Mizuki, Edizioni Kappa (due volumi, A-K del 2004 e M-Z del 2005). Provate a rivedere La città incantata e La principessa Mononoke (by Miyazaki) dopo aver sfogliato questi due volumi, vi si aprirà un mondo!
Vi consiglio anche un paio di anime, xxxHOLiC e Tactics8: praticamente sono entrambi (seppure in maniera molto diversa) un'enciclopedia a puntate sui mostri giapponesi, che non solo vengono citati, ma le cui apparizioni sono spesso accompagnate da spiegazioni di origini, caratteristiche e modi di affrontarli. Proprio per questa loro peculiarità non sono anime facilissimi da seguire, ma restano una miniera di notizie interessanti.



NOTE

1 Ranma ½, di Rumiko Takahashi. Manga edito in Italia dalla Starcomics; anime di 161 episodi trasmesso da varie reti italiane. La canzone è Yasashii, Ii Ko ni Narenai (= non posso diventare una ragazza buona e brava), cantata da Noriko Hidaka (doppiatrice giapponese di Akane) e contenuta nel CD Ranma 1/2: 1991 Song Calendar.
2 Neon Genesis Evangelion, ideato dallo Studio Gainax. Manga di Yoshiyuki Sadamoto edito in Italia dalla Planet Manga (serie in corso); anime di 26 episodi trasmesso in Italia da Mtv.
3 Zero no soukoushi, di Kaori Yuki. Manga edito in Italia
dalla Planet Manga col titolo Zero - Il maestro dei profumi.
4 Saiyuki, di Kazuya Minekura. Manga edito in Italia dalla Dynit (I serie completa; II serie - Saiyuki Reload - in corso); anime di 50 episodi trasmesso da Mtv col titolo Saiyuki e la leggenda del demone dell'illusione (mancano III e IV serie). Ulteriori approfondimenti nel post Saiyuki di questo blog, come da link nel testo.
5 Lamù, di Rumiko Takahashi. Manga edito in Italia dalla Starcomics; anime di 195 episodi trasmesso da varie reti italiane.
6 Inuyasha, di Rumiko Takahashi. Manga edito in Italia dalla Starcomics (serie in corso); anime di 167 episodi trasmesso da Mtv.
7 Naruto, di Masashi Kishimoto. Manga edito in Italia da Planet Manga (serie in corso); anime di 220 episodi in corso su Italia 1 (I serie); la II serie (Naruto Shippuuden) è tuttora in prosecuzione in Giappone e verrà trasmessa in Italia sempre da Italia 1.
8 Tactics, di Sakura Kinoshita. Manga inedito in Italia (serie in corso); anime di 25 episodi (I serie) recuperabile sottotitolato in italiano.
Per gli altri titoli citati ma non segnalati in questa nota, si fa riferimento alle voci precedenti del dizionario.

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Argomenti correlati: Dizionario: 1-10, Dizionario: A, Dizionario: B (2) - C

3 aprile 2008

Paradise Kiss

ANIME
La vicenda è ambientata nel mondo della moda, un po’ come Gonkinjo Monogatari (“Curiosando tra i cortili del cuore”, solite traduzioni italiane), da cui l’autrice riprende alcuni personaggi. L’anime è tratto dall’omonimo manga di Ai Yazawa. Le puntate, per la precisione stage, sono insolitamente 12 e non risulta nessun OAV. Consigliato a quel pubblico che sta attraversando il drammatico passaggio verso l’età adulta.

TRAMA
La vita di una ragazza diciottenne viene stravolta nel momento in cui conosce un gruppetto di ragazzi creativi, che sa cosa vuole e che insegue i propri sogni. Per Yukari sarà il momento di fare i conti, per la prima volta, con l’amicizia, l’amore e le ambizioni, di cambiare la propria vita e scegliere il futuro che desidera maggiormente, senza dover sottostare alle ambizioni altrui.

PERSONAGGI
Yukari Hayase non può che essere la protagonista della serie. Ragazza dotata di carattere, che però diventa fragile quando si tratta dei suoi affetti. Studia moltissimo per accontentare la madre, che è sempre insoddisfatta dell’operato della figlia perché dovrebbe sempre primeggiare rispetto a chiunque. E' stata battezzata Caroline da Miwako e da qui nasce Carrie per Isabella. Intraprenderà una turbolenta storia d’amore con George.


George/Joji Koizumi, lo stilista di Paradise Kiss (o Parakiss, l’etichetta). E' parecchio eccentrico basta, infatti, notare i suoi abiti. Ha delle idee assolutamente geniali, non si può dire lo stesso del suo carattere. E’ generalmente un tipo gentile, anche se con Yukari certe volte sono scintille (in tutti i sensi).


Miwako Sakurada da’ una mano al gruppo, non avendo la creatività di tutti gli altri. Si sente inferiore alla sorella Mikako che è diventata una grande stilista e sa di non poter essere come lei. E’ fidanzata con Arashi ed è stata amica d’infanzia di Hiroyuki. Legherà moltissimo con Yukari.


Arashi Nagase è il classico duro dal cuore d’oro. L’aspetto non è certamente dei più confortanti dato i suoi innumerevoli piercing (o spille da balia), tanto che il primo incontro con Yukari è tutto un programma! Anche lui è stato amico d’infanzia di Hiroyuko. Cuce gli abiti e fa parte di una band.


Isabella disegna le stoffe. Anche se dall’aspetto non si direbbe, è un travestito e conosce George da sempre. Scopriamo qualcosa in più sulla sua vita e sulla sua infanzia proprio nelle ultime due puntate della serie. E’ una persona veramente dolce, premurosa e affabile. L’amica che tutti vorrebbero avere.


Hiroyuki Tokumori è il classico bravo ragazzo studioso, il tipo che ogni madre vorrebbe come genero. E’ un tipo molto riservato e molto gentile. Yukari, che inizialmente aveva una cotta per lui, è una sua compagna di classe e lui le è molto affezionato. Il ragazzo è un po’ sfigatello in amore, infatti, anni prima Miwako scelse Arashi tra i due amici.


Curiosità

  • Assolutamente da ascoltare le due sigle, la prima poi è eccezionale: Lonely in Gorgeous di Tomoko Kawase e Do You Want To dei Franz Ferdinand (il nome della band comparirà in una scena).


  • Il nome di George. Noi occidentali siamo abituati alla pronuncia inglese, ma guardandolo in lingua originale il suono è diverso. Pensando che fosse un errore dei traduttori ammetto di averlo cercato su internet e ho scoperto che “Il nome Joji è la pronuncia giapponese del nome George [1]”.


  • Nella sigla di apertura compare Arashi che canta e il pubblico che poga. In effetti, questa scena non si è mai vista nell’anime. La scena finale riprende le caricature, parecchio divertenti, dei personaggi.



Impressioni:
Per chi la conosce, Ai Yazawa (il già citato Curiosando nei cortili del cuore e Nana) è famosa per il suo tratto che personalmente non rientra nei miei gusti, ma, nonostante questo, mi sono piaciuti proprio molto gli occhi di Yukari. Non apprezzo il disegno del make-up, né tanto meno le capigliature, ma in generale proprio il tratto. Mi sono resa conto che i colori non sono molto brillanti, alcuni addirittura sono un po’ smorti, ma è probabile che siano stati scelti proprio di queste tonalità per adattarsi perfettamente alla storia che, in alcune sequenze, è intervallata da immagini reali. Una scelta interessante, dopotutto, che si vede davvero poco in giro.
I personaggi sono variegati e hanno una loro psicologia: troviamo il ragazzo rude dal cuore d’oro, la ragazza sensibile e sorridente, lo sfigato di turno che però è il classico bravo ragazzo, e così via, ma di tutti, un po’ alla volta, comprendiamo i pensieri, le emozioni, le sensazioni. Infatti, non sono poche le volte che entriamo anche noi nella storia, magari al posto di quegli stessi ragazzi o comunque come pubblico attivo. Alla fine, benché la storia non sia proprio comune, quei ragazzi lo sono. Se togliamo la “moda” e la sostituiamo genericamente con “passione” (hobby sarebbe certamente inappropriato), allora sì in questo caso, avremo una storia più facilmente “nostra”. Tutti avranno conosciuto nell’età d’oro (la giovinezza, ma non solo) un ragazzo carismatico ed enigmatico come George, apparentemente non molto cortese da “fidanzato” (tanto da farmi ricordare la famosa canzone Teorema), ma è nei piccoli gesti che si nota tutto il contrario (un caso eclatante non può che essere il famoso anello a forma di farfalla fatto con le perline). George indossa una maschera. La risposta al “perché? ” è identica a quella che ci diamo ogni giorno. E tutti avranno conosciuto una Yukari, bella ragazza ma glaciale col prossimo per due motivi: uno perché la madre non è così espansiva, e l’altro perché studiando e vivendo per lo studio non ha molte occasioni di relazionarsi con la gente, con i suoi coetanei. E l’elenco si potrebbe fare per tutti i personaggi.
Le colonne sonore non sono messe lì tanto perché ci vuole un po’ di musica. I due pezzi, di apertura e di chiusura, predicono, anticipano la storia ma saranno capite solo man mano che si procederà nella visione delle puntate e si giungerà alla fine. La sigla di apertura è il preambolo per eccellenza, è come se dicesse “è questo che vi dovete aspettare” ma si capirà veramente alla fine. Io sono rimasta molto colpita dalla sigla iniziale per questo motivo, l’ho trovata assolutamente geniale, un’ottima sigla per anime. Oltretutto è anche molto bella, a prescindere.

Ma allora Parakiss che cos’è?
Ottima domanda! Parakiss è sostanzialmente una storia di passioni: passione per qualcosa, per qualcuno, passioni sopite. E’ anche una storia passioni represse per un fine più grande che può essere un’amicizia o la crescita dei personaggi. Capire se è giusto continuare qualcosa che ci fa stare male o no, capire se le amicizie possono essere recuperate, capire che bisogna solo prestare la propria spalla. Capire, infine, che dopotutto, anche se sono necessari parecchi anni il dolore scema, eppure il ricordo rimane magari anche solo in un angolino di noi stessi, ma è lì e non andrà mai via. Forse è questa l’interpretazione più giusta che si possa dare all'anime (che poi è un manga). Parlare della moda, della storia d’amore sarebbe riduttivo.
Premetto che quest’anime, in realtà, l’ho guardato più per curiosità piuttosto che per interesse vero e proprio. Dopo la terza puntata, però, mi sono dovuta ricredere sul perché lo stessi guardando e intuendo la risposta ho deciso di vederlo fino in fondo. Ero curiosa perché me ne avevano parlato brevemente, ma inconsciamente era già scattato qualcosa (la curiosità, appunto) altrimenti non l’avrei certo cercato! Se non fossi arrivata alla terza puntata, probabilmente, non avrei continuato la visione per il tratto che, come ho già detto, non rientra fra le mie preferenze. La vicenda, per fortuna, è andata diversamente. E mi sono addentrata nel tunnel. Avrebbero potuto (dovuto!) allargare la storia, anche se non c’è nulla di intentato o lasciato a metà. In realtà le 12 puntate sono perfette, bisogna darne atto. La pecca insopportabile è la fine. No, davvero, è paurosa. Intendiamoci ci può anche stare, ma non può finire in quel modo. E’ contro tutte le leggi che governano la finzione! Ma volendo accontentarsi di quel finale (cosa alquanto impossibile per come è articolata la storia), l’ultimo minuto è decisamente troppo. Per la precisione sono sessantacinque secondi (cronometrati) in cui ci si domanda solo una cosa: perché. Forse, da un certo punto di vista, la vita è meglio. Mi spiego meglio: nel “reale” si sa che le cose potrebbero andare in un certo modo poiché la “vita” ha in sé parecchi significati positivi e pure negativi. Si sa a cosa si va incontro, insomma. In un anime (o manga) ci sono altre aspettative: la finzione e quindi il contrario di quello che può accadere realmente. Quando queste aspettative vengono stravolte, il risultato è un coinvolgimento emotivo a ridosso dell’ira funesta di Achille. Quantomeno è quello che è capitato a me durante quei secondi.
Riassumendo dell’anime mi è piaciuta la storia, ma soprattutto i tratti psicologici dei personaggi. E la musica. Tutto il resto fa assolutamente da contorno, è un qualcosa che aggiunge e che non leva nulla. La fine, comunque, per me è stata pessima, come se fosse stata scritta giusto perché bisognava concludere il tutto. Ho sempre detestato questo genere di conclusioni perché rinnegano un po’ tutta la storia. Ma questa, signori miei, questa fine è veramente atroce!

MANGA[2]
La prima edizione del manga di ParaKiss fu distribuita dalla Planet Manga a partire dal dicembre 2001 ed era costituita da 10 volumetti al prezzo di 2,32 euro cadauno. Attualmente, ne è in corso la ristampa sotto forma di Collection: 4,50 euro per ogni volume (sono in totale 5).
Il tema principale su cui verte tutta la storia è sicuramente la passione. Che sia passione fra uomo e donna o quello per la famiglia o l'amicizia, conta poco dal momento che saranno temi che si intrecceranno inevitabilmente fra loro di continuo, coinvolgendo protagonisti e personaggi di secondo piano. Ma non possiamo non notare anche la presenza, forte, della passione nei confronti delle proprie abitudini e attinenze, come confezionare abiti. Un compito ben lontano dall'obiettivo scolastico cui Yukari è stata indirizzata fin dalla più tenera età ma che la trascinerà in questo vortice all'improvviso, a partire dal momento in cui si ritroverà a fare da modella per la sfilata di fine anno accademico dell'istituto Yaza (evidente il richiamo al cognome dell'autrice). La passione per la moda è sicuramente il perno di tutta la narrazione poiché ogni personaggio si ritroverà a dare anima e corpo per terminare il lavoro, a sacrificare il proprio tempo libero per tagliare e cucire, a mettere i propri mezzi e le proprie finanze per comprare tessuti e accessori. Insomma, tutto il manga è l'elogio al sacrificio inteso in primis come voglia di riuscire per portare a termine un impegno ma anche per poter essere soddisfatti di se stessi, sempre e comunque, indipendentemente dalle imposizioni esterne e dai giudizi spesso fin troppo critici. E' questo un messaggio importante che la Yazawa ha voluto dare pagina dopo pagina, sotto diverse forme e sfaccettature.
Ogni capitolo prende il nome di Stage e i personaggi sono disegnati con una cura maggiore rispetto all'anime, perfetti nei lineamenti del viso ma soprattutto negli abiti, ricchi di particolari e sempre accompagnati da accessori.
Tutti i protagonisti, in tempi e modi diversi, subiscono un'evoluzione pagina dopo pagina, che si traduce soprattutto come una serie di cambiamenti mirata a renderne più maturo il carattere e più consapevoli le azioni. E' necessaria  però una lettura attenta ed esente da distrazioni, perché sovente le espressioni di un viso sono più eloquenti di un qualsiasi dialogo.
Il più enigmatico fra tutti è Joji Koizumi. I tratti delicati gli donano un inevitabile tocco di classe e un fascino maggiore, lasciano inoltre intendere, prima di ogni spiegazione dell'autrice, il suo sangue misto. Il modo di fare del giovane non appare subito chiaro, infatti capita di aspettarsi da lui tutto l'opposto di quello che farà; ciò fa sì che ci si abitui al suo lato un po’ dongiovanni e menefreghista in modo graduale, a differenza della trasposizione su schermo dove tutto è stato accelerato e molti passaggi non sono stati spiegati a dovere a causa delle poche puntante a disposizione. Joji è senza dubbio il più affascinante fra tutti, forse per il suo porsi da arrogante ed intrigante allo stesso tempo e per le sue imprevedibili carinerie; la Yazawa vi è molto affezionata, tanto da citarlo anche in Nana[3] (vedi anteprima a destra).
Un personaggio che suscita da subito curiosità è invece Isabella. E' l'addetta ai fornelli dell'atelier, oltre che collaboratrice della collezione ParaKiss. Nel manga ha sempre vestiti eccentrici e unghie impeccabili, nonchè una certa raffinatezza nei modi di fare; spesso, però, ha un make-up fin troppo eccessivo (cosa che è molto evidente nel manga, meno nell'anime), fa uso di accessori molto vistosi e dalle mani trapela un che di "stonato": questo perché, come sarà possibile comprendere a storia inoltrata, in realtà è un ragazzo. Un ragazzo che non ha mai accettato, fin da piccolo, il suo sesso e che poco a poco ha deciso di cambiare totalmente identità, grazie soprattutto all'appoggio di Joji, suo amico di infanzia per il quale rivelerà indirettamente d'avere una cotta.
L'ultimo ragazzo della compagnia è Arashi Nagase, che nei tratti del manga è un incrocio fra Nobu e Shin di Nana mentre nell'anime è quello che è stato disegnato peggio; è il personaggio cui la Yazawa ha affidato il proprio interesse per la musica, avendogli donato, oltre alla passione per la moda, quella per la chitarra. E' il personaggio che richiede sicuramente più tempo per essere conosciuto, dato che inizialmente ha un ruolo molto marginale soprattutto per il fatto che viene messo in ombra da Miwako, la sua chiassosa fidanzata.
Miwako Sakurada, a dispetto di quel che può sembrare, è il personaggio chiave di tutta l'opera; è la sorella di Mikado Koda, proprietaria della linea d'abbigliamento "Happy Berry" e che abbiamo già visto in Gokinjo Monogatari. Miwako ha una personalità frizzante e sbarazzina; è un incrocio fra una lolita giapponese ed una bimba che accoglie le belle novità con tanto entusiasmo. In realtà, nonostante l'indole spensierata, ha un lato del suo carattere che tende a celare, ovvero quello più insicuro, che si manifesta sia nei confronti del suo amore per Arashi, messo in dubbio in seguito all'incontro con il suo amico di infanzia Hiroyuki Tokumori (figlio del proprietario del pub "Blue Parrot", anche lui visto in Gokinjo Monogatari), sia nei confronti della sorella stessa, stilista affermata e richiesta che sente non riuscirà mai ad eguagliare.
L'ultima descrizione tocca alla protagonista assoluta, Yukari Hayasaka. La storia si apre proprio con lei che, molto irritata, incontra casualmente Arashi ed Isabella per le strade di Tokyo. E' una ragazza molto fragile, che racchiude in sé tutte le caratterizzazioni negative tipiche delle liceali: è insicura e ansiosa, è oppressa dalla famiglia che vuole a tutti i costi che lei sia la prima a scuola, è incapace di avere relazioni interpersonali e se ne sta sempre chiusa nel suo mondo di libri per prepararsi agli esami che le  consentiranno di accedere all'università. Non ha passioni, non ha sogni. Tutto questo finché, un giorno, si troverà catapultata contro la sua volontà nel mondo di ParaKiss. Caroline, inconsciamente, ha dentro di sé un'indole molto ribelle che ha bisogno di una spinta molto forte per essere tirata fuori  Una spinta che le verrà data proprio dall'amore.



NOTE

[1] Fonte Wikipedia.

[2] Recensione curata da Utopia, la nostra fondatrice, alla quale va il mio più sentito ringraziamento.
[3] Nana collection #4, La stanza di Junko.




Scritto da mulaky

28 gennaio 2008

Il lungometraggio nel Cinema d'animazione: come Walt Disney diede un tocco di rinnovamento ad un'arte imbrigliata in se stessa

Quando negli anni Trenta l’esplosione del Cinema d’animazione sembrava non conoscere limiti - con l’errata e diffusa credenza che il disegno animato di serie fosse la sola ed unica forma per implementarne il successo di platea – una confusionaria ed oltremodo eterogenea realtà si presentava agli occhi della critica. Ma fu soprattutto il pubblico a risentire maggiormente di questa situazione, nella misura in cui si trovava di fronte a stili, tecniche e metodi di fruizione del suddetto prodotto filmico senza che una necessaria scansione didattica ed una visione pragmaticamente ben definita lo accompagnasse durante il suo approccio passivo con l’arte dell’animazione.
L’approfondimento e lo studio dell’espansione di questo fenomeno cinematografico sono argomenti piuttosto interessanti, ma almeno altrettanto vasti e complessi da richiedere un impegno maggiore di quello ad essi ivi dedicato. Per questo, dando per scontate le origini “preistoriche” del disegno animato nel Mondo - e le sue (talvolta) autoproclamate finalità – individuabili in nomi quali P. Terry o i fratelli Fleischer, si può tranquillamente affermare che un vero e proprio periodo di svolta in quell’intricata situazione di stallo nel Cinema d’animazione è rappresentato proprio dagli anni Trenta del Novecento, periodo storico per antonomasia ed in cui il Cinema d’animazione ha finito per occupare una fetta predominante dei consensi indirizzati da parte del pubblico nei confronti più generalmente della Settima Arte.
E’ presupposto dell’industria cinematografica tutta quel dato di fatto che, sebbene all’apparenza banale, è sempre importante non sottovalutare: più i produttori investono, più il prodotto si vende con largo successo e soddisfacenti risultati. Per questo, mentre le ragioni dell’arte faticavano ancora a trovare una retta via su cui immettersi, quelle del commercio avevano già intuito che, nonostante la confusione generale, il Cinema d’animazione era un ottimo pretesto per ottenere lauti guadagni. Una mentalità tipicamente americana, che se talvolta ha ucciso l’anima pura (ed incontaminata dai pregiudizi materiali) degli artisti che per necessità vi ricorrevano, talaltra è riuscita a conciliare le esigenze di mercato con la più alta espressione dei talenti al momento in crescita.
Walter Elias Disney (1901 –1966) può dirsi l’uomo che meglio ha sposato questa filosofia (per ulteriori approfondimenti, fare riferimento a questo post). L’avvento nel mondo dell’animazione da parte sua è cosa nota ai più, così come il suo apporto innegabile nei confronti dello stesso è storia condivisa dalla maggior parte degli appassionati del genere. Ciò che spesso non viene tenuto in considerazione, piuttosto, è quella sua indiscutibile capacità di districarsi nel caos cui l’arte dell’animazione era pervenuta (e che in buona parte dipendeva anche da lui) innovando questa branca della cinematografia mondiale tramite l’immissione di un format inedito che cambiava radicalmente l’utilità pratica del disegno animato, almeno negli USA: il lungometraggio. Una formula che pareva novità assoluta in quest’ambito, ma che in realtà non può vantare a tutti gli effetti il primato mondiale, essendo anagraficamente seconda (e non di poco: vent’anni) all’opera dell’animatore argentino, di origine italiana, Quirino Cristiani, intitolata El Apostol (1917).
Dopo aver riscontrato un inaspettato successo per il personaggio di Mickey Mouse (in Italia noto come Topolino) - la cui paternità è probabilmente attribuibile ad Ub Iwerks – giustificabile forse con la capacità di quest’ultimo di precorrere i tempi e di idealizzare la coscienza collettiva dell’America catturando sguardi, attenzioni e risate, l’evoluzione del Cinema d’animazione di Wal Disney e dei suoi fedeli “aiutanti” non si è fermata di fronte allo scoglio della non comprensione data dallo stravolgimento del tessuto narrativo e tecnico: i primi film che vedevano protagonista il topo/ragazzo che incarnava da un lato la semplicità dell’americano medio, dall’altra parodiava le gesta eroiche del suo tempo di svariati personaggi che avevano conquistato il cuore degli americani (e così facendo, Topolino sapeva cavalcare l’onda del successo), erano caratterizzati dalla timorosa aderenza del mezzo cinema verso il reale (in questo, appunto, non distaccandosi molto dal Cinema “del vero”, così come lo si usava definire, in contrapposizione a quello d’animazione), spesso attenendosi agli schemi preimpostati da esso, talvolta ricalcandone letteralmente le vicende raccontate (Gallopin’ Gaucho, del 1928, per esempio). Più spesso accadeva che fosse la realtà sociale americana a fungere da fucina di idee e progetti, dimostrando come il disegno animato negli anni Trenta fosse dotato di una dirompente carica di ironia, spesso comicità, talvolta velato sarcasmo che riempivano il cuore del pubblico di nostalgico senso di appartenenza.


Mickey Mouse[1]Ma ciò che a tutti gli effetti mancava al Cinema del Disegno era una doverosa coscienza autonoma, qualcosa che lo slegasse dalla realtà pratica e materiale di tutti i giorni e che facesse dell’animazione non più un genere narrativo, ma una tecnica cinematografica. Questa fase ambigua del Cinema d’animazione ha condizionato pesantemente critica e pubblico che, negli anni, non sono stati capaci di intravedere la comicità o la drammaticità, lo spirito moralista o la cruda sagacia, il vivido erotismo o il bigottismo sofisticato, il noir o l’epica nei “cartoni animati”, “accomunando” superficialmente opere come Shrek e Lupin III per il solo fatto che sono entrambe caratterizzate dall’animazione del disegno.
Questo falso storico è qualcosa che tutt’ora svilisce l’arte dell’animazione. L’incapacità di riconoscere in essa non un genere, ma una tecnica per narrare attraverso più generi (o più personalità artistiche espresse) ha sminuito il Cinema d’animazione e non ne ha permesso una necessaria conoscenza da parte del pubblico. In realtà, personalità come quella di W. Disney, sono state in grado di fornire alla tecnica e all’arte dell’animazione una sua peculiare coscienza indipendente, un modo per slegarsi dalle canalizzazioni teoriche. Con il disegno animato Walt Disney ha raccontato l’America semplice di Topolino. Ma resosi conto che tutto ciò imbrigliava notevolmente l’arte che sosteneva, ha preferito evolversi, per lasciare libero sfogo ad essa. E’ in questa fase che nascono le Silly Symphonies. Ma ciò che preme sottolineare non è tanto l’avvento di una nuova branca nelle serie animate, quanto piuttosto di una nuova filosofia cui le stesse si rifanno. A questo punto il realismo non bastava più. Disney ed Iwerks guardavano all’animazione come alla possibilità di infrangere le barriere del fantastico e del sogno, rifuggendo la verità (per quanto raffinata, nel tempo) per narrare fiabe e costruire un mondo nuovo, fatto di surreale commozione e languida rappresentazione della vita. Si innescavano meccanismi di esteriorizzazione dei sentimenti, caramellando ed infantilizzando le immagini. Le scarpe larghe ed i tratti appena accennati di Topolino erano ormai acqua passata; fu lo stesso Walt Disney a smentire coi fatti la sua programmatica precedente, caratterizzata da una dichiarazione esemplare della sua mentalità pragmatica riguardo alla creazione del personaggio di Mickey Mouse: Cinque dita ci parvero troppe per un esserino così piccolo, così gliene levammo uno. Un dito di meno da animare.
Una corrente molto più raffinata, quasi snob sembrava invece, appunto, soffiare in quel periodo negli studios di Burbank. Si suggerivano valori o dogmi etici, ma mai prendendo spunto dal “vero”. Ciò che prima era semplice, schematico, quasi “allergico alla sofisticazione”, sarebbe divenuto una totale trasfigurazione della realtà: non ciò che il Mondo era, ma ciò che esso avrebbe voluto essere.
E’ bene precisare, però, che in verità per arrivare a questa totale autonomia dell’animazione (per lo meno disneyana) si dovette passare attraverso un periodo di gretta sperimentazione. In altre parole, quelle Silly Symphonies che oggi apprezziamo tanto, sono servite unicamente da virtuosistico e manieristico esercizio di stile. Con esse Disney aspirava alla perfezione tecnica, una tensione che si sarebbe portato dietro e che avrebbe reso un vero perno di tutta la sua industria dello spettacolo. Qualcosa che, in un periodo così denso di cambiamenti, raggiunse il suo culmine con l’introduzione della multiplane camera: inaugurata con la Silly Simphony intitolata The Old Mill (1937), questa tecnica che ricercava preziosismi e perfezionamenti nell’ambito della rappresentazione della profondità – avvicinandosi alla tridimensionalità del soggetto rappresentato – consiste in un congegno che permette di porre i personaggi su un livello sfalsato e sovrapposto rispetto a quello delle scenografie o dei paesaggi.


 




E’ con questa determinazione (che nel periodo della guerra costerà anche diversi dissapori e malumori all’interno dell’azienda, capaci di sfociare in uno sciopero davvero improduttivo per la Walt Disney) che il magnate dell’animazione più famoso al mondo è riuscito a farsi strada nella selva di stili e di opere anonime (per i non appassionati), imponendosi sulla scena mondiale e sviluppando per l’animazione quella coscienza autonoma e personale, per cui una tecnica poteva finalmente dirsi slegata dalle definizioni dottrinali e farsi mezzo unicamente stilistico per esprimere l’arte. Occorre però non dimenticarsi che, in questi anni che fungono da premessa vera e propria ai lungometraggi dell’animazione disneyana, Walt Disney ha saputo cogliere la palla al balzo e soddisfare le aspettative del pubblico. In fin dei conti il suo obiettivo primario era proprio quello di non deludere la piccola borghesia delle famiglie o dei benpensanti americani (e non solo).
Ma è proprio nella sua capacità di fare di necessità virtù che si può individuare l’abilità di Walt Disney. Riuscire a smuovere le acque ferme, o le fronde ingarbugliate di un mondo cinematografico che stentava a riconoscere sé stesso, per ingrandire un impero, sarà forse moralmente poco apprezzabile (sfido, però, a trovare, nel Cinema tutto, un produttore che non dipenda da simili leggi economicamente condizionate), ma è indubbiamente impresa ammirevole sotto il profilo dei risultati.
Tanto più se si pensa che quegli esiti a cui Disney è riuscito a giungere, si sono evoluti sfruttando l’onda del successo per divenire molto di più che un semplice tentativo di garantire il prodotto alle masse. Perché chi conosce l’universo disneyano, sa bene che i suoi lungometraggi, a partire dal sofferto ma soddisfacente esordio nel 1937 con Biancaneve e i sette nani, sono molto di più di un semplice ponte fra l’industria del Cinema ed il pubblico impaziente seduto sulle poltrone. Ognuno di essi contiene una storia, qualcosa di nuovo, un fascino misterioso dato proprio dalla sua peculiare ricreazione di un Mondo che nella realtà non c’è.
Ed è per questa ragione che ognuno di essi merita di essere approfondito separatamente da tutti gli altri.

29 dicembre 2007

Dizionario: A

Particolarità di questo dizionario
Ormai trovare i significati delle parole giapponesi è veramente facile. Anche l'uso che si fa di certi tecnicismi è spiegato ovunque (pensiamo solo al vasto spazio nella Wikipedia riservato ad anime e manga).
La sfida di questo dizionario non è nelle spiegazioni, ma nel modo in cui queste vengono effettuate... insomma, negli esempi, tratti da anime o manga conosciuti (potreste scoprire particolarità che non avevate notato), o poco noti (tra i quali ci potrebbero essere titoli di vostro gradimento, perchè no). Nei commenti quindi sarebbe bello poter leggere non solo i vostri pareri sul lavoro, ma anche i vostri consigli, le vostre esperienze, richieste di termini che non conoscete o magari errata corrige. Ah, anche vostri contributi, perchè no!

Alcune note sulla pronuncia
La "U" praticamente non si legge ("suki" si leggerà più o meno "ski")
Il dittongo "OU" si pronuncia come una "O" lunga e traslitterato si può trovare anche come "ō".

Specificato questo, cominciamo col dizionario vero e proprio.


AA, intesa come prima lettera dell'alfabero giapponese, che col nostro ha solo questa somiglianza. Intanto, oltre ai kanji (cioè i famosi ideogrammi), vengono usati 2 alfabeti sillabici, l'Hiragana (l'alfabeto "normale") e il Katakana. Ho pensato di linkare (tabella 1; tabella 2; tabella 3) l'immagine del katakana, l'alfabeto usato per trascrivere i nomi stranieri e per attirare l'attenzione del lettore su un dato termine (una sorta di grassetto o corsivo). Con alcuni accorgimenti (se volete li spiego nei commenti) vi permetterà di scrivere il vostro nome in giapponese.
A parte questo, l'alfabeto può tornare utile nei manga e negli anime ad ambientazione scolastica, dove capita che facciano l'appello giusto per scoprire che il protagonista della serie è puntualmente assente.
Esempio
In una delle puntate di Yu Yu1 accade proprio quanto detto sopra: Yusuke fa di cognome Urameshi... beh, il suo nome, cominciando con la terza lettera dell'alfabeto (e non la ventesima), è tra i primi ad essere fatto.

AHO/AHOU = stupido (v. Baka)

AIAI = Amore
Termine indispensabile in anime e manga. Per gli adolescenti (e non) che amano dire "ti amo" in tutte le lingue del mondo, ecco come lo direbbero i giapponesi: 愛している ("aishiteiru").
Come per noi italiani, non esiste in giapponese un solo modo per esprimere un sentimento d'amore. Molto diffuso in anime e manga è "suki", che letteralmente vuol dire "mi piace/i". Si può usare un po' per qualsiasi cosa (cibi compresi) ma avendo un significato molto meno "potente" di "ai" si adatta bene alle atmosfere dolci e innocenti degli shojo (i manga per ragazze): è una sorta di "ti voglio bene", insomma, e sentire "suki" al posto di "ai" da la sensazione di un sentimento delicato e affettuoso.
MODIFICA del 19.01.2008: ho fatto recentemente caso a un altro modo per dire "amore", cioè "koi": dall'uso che ne fanno (sulla base dei miei esempi) sembra non avere particolari sfumature d'uso o intensità di sorta. E' come se descrivesse "un dato di fatto" puro e semplice, tanto che l'amante (inteso in senso etimologico) si dice "koibito", cioè "persona che si ama". (filmatino di esempio al commento #49)
Esempio
Ecco alcune scene dall'anime Loveless2. Il protagonista, Ritsuka, per una serie di vicende parecchio spiacevoli, si interroga spesso su cosa sia l'Amore, ancor di più dopo aver conosciuto Soubi, che del termine "suki" fa un uso "esagerato" e a volte contraddittorio.

AKUMA = diavolo, demone (v. Bakemono)

ANATA = Tu
Siamo in piena grammatica giapponese, eppure il rischio s'ha da correre per poter spiegare alcuni usi particolari a) di questo pronome, b) della resa in giapponese della seconda persona singolare.
a) Per quanto grammaticalmente corretto, dire "tu/anata sei, fai, etc" non va sempre bene, anzi. Per parlare con la persona che abbiamo davanti useremo "anata" solo se vogliamo dimostrare un grado di confidenza veramente alto... tanto alto che negli anime è così che sentiamo le mogli rivolgersi al marito: in quel caso può essere tranquillamente tradotto come "caro".
b) E allora come fanno a rivolgersi all'interlocutore? La forma più comune (ed educata) è il parlare in terza persona, usando come soggetto il cognome (o il nome) dell'interpellato o la professione. Esistono poi dei pronomi alternativi, il cui uso denota, di caso in caso, maggior confidenza ("kimi") o addirittura maleducazione ("omae", "anta"). "Kisama" e "temee" sono poi veri e propri insulti: è come se dicessimo "tuuuu!!! Brutto *censura*!!!".
Esempio
Per la questione dell' "anata=caro" non credo servano particolari spiegazioni, così come per gli altri pronomi citati: fateci semplicemente caso ;) . Piuttosto ecco pochi secondi dalla puntata 10 di D.Gray-man3, in cui è facile capire l'uso della terza persona usata come un "tu" (grazie al nome "comprensibile" dell'interpellata, Miranda(-san), con cui Allen sta parlando direttamente; Allen comunque parla sempre come un libro di grammatica...).

兄貴ANIKI = Fratello maggiore.
E' un termine caro alla Yakuza, la mafia giapponese: i subalterni si rivolgono così ai loro superiori e mentori, purchè questi non siano il capo (quello lo chiamano "capo", logicamente).
L'uso di un termine del genere in un manga o in un anime, inoltre, richiama la struttura mafiosa anche in contesti che di mafioso non hanno nulla, garantendo una certa ironia sia sul personaggio che usa il termine sia su colui al quale si rivolge.
Esempio

Esempio fresco di edicola il numero 8 di Host Club4, in cui il primogenito di un capo della Yakuza si rivolge con questo termine a uno dei protagonisti, per esprimergli la sua devozione (non che Mori ne sia entusiasta) (ricordo che i fumetti dei manga si leggono dall'alto in basso e da destra a sinistra). Ecco la stessa scena ripresa nella puntata 22 dell'anime (per la cronaca, il tipo non si chiama veramente Bossanova...).

ANIME = cartone animato giapponese
Vale sia per serie tv che lungometraggi o OAV; deriva dalla parola inglese "animation" (e infatti è scritto in katakana).
Il vero pioniere dell'animazione giapponese è Osamu Tezuka, il "dio del manga", che curò personalmente la trasposizione su piccolo schermo dei suoi manga, fin dalla fine degli anni '50: l'anime di Astroboy (Tetsuwan Atomu, "l'atomo potente", come si può sentire nella prima sigla), del 1963, è uno dei primissimi trasmessi dalla tv giapponese, se non il primo.
Sui dettagli storici è meglio non soffermarsi, forse in futuro potranno essere oggetto di un post a parte...

ARIGATOU = Grazie
Vi piacerebbe che fosse così semplice! E invece, siccome i giapponesi hanno un fortissimo senso delle gerarchie sociali e ci tengono a rivolgersi nel modo corretto a chiunque si trovino davanti, hanno solo quella tonnellata di modi per dire Grazie... Eccone alcuni.
ARIGATOU GOZAIMASU (o gozaimashita): l'ideale per ogni occasione, sicuramente educato, diventa formalissimo, quasi retrò se usato nella forma tra parentesi.
ARIGATOU: meno formale, da usare se si ha a che fare con persone che si conoscono.
DOUMO: viene usato principalmente dai maschi o dalle ragazze che hanno un modo di fare un po' grezzo, e già questo rende l'idea del tipo di utilizzo. Può risultare pure scortese, se rivolto a qualcuno verso cui dovremmo comportarci con maggior rispetto.
Esempio
Nell'anime xxxHOLiC5, Doumeki è un ragazzo di poche parole con un modo di fare naturalmente sfacciato, che tratta tutti con totale spontaneità, senza preoccuparsi di essere formale: ringrazia poco, e quando lo fa usa "doumo". Himawari invece è una ragazza molto gentile ed educata (a tratti fastidiosa, n.d.Miz); dice "hontouni arigatou", traducibile con "grazie veramente"; in ogni caso è raro che usi "arigatou" da solo.

ATASHI = io (pronome femminile) (v. boku)




NOTE
1Manga: Yu Yu Hakusho, di Yoshihiro Togashi, edito in Italia dalla Star Comics come Yu degli Spettri. Anime: Yu Yu, 112 puntate, trasmesso in Italia da Mtv e La7.
2Manga: Loveless, di Yun Kouga, inedito in Italia; Anime omonimo di 12 puntate (I serie), recuperabile sottotitolato in italiano. Loveless è uno "shonen ai", cioè tratta di "amore tra ragazzi" visto in un ottica tutta femminile (arrivati alla "S" avrò modo di spiegare cosa si intende).
3Manga: D.Gray-man, di Katsura Hoshino, edito in Italia dalla Planet Manga. Anime omonimo tuttora in prosecuzione e recuperabile sottotitolato in italiano.
4Manga: Host Club, di Bisco Hatori, edito in Italia dalla Planet Manga. Anime: Ouran Koukou Host Club (et similia), 26 episodi, recuperabile sottotitolato in italiano.

5Manga: xxxHOLiC, delle Clamp, edito in Italia dalla Star Comics. Anime omonimo tuttora in prosecuzione, al momento è possibile recuperare la prima serie (24 episodi) sottotitolata in italiano.

Copyright di immagini e video degli aventi diritto; un ringraziamento va anche ai vari gruppi di fansubbers che diffondono in Italia le novità giapponesi.

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