13 marzo 2007

Mi chiamo Dog, Dylan Dog

Una introduzione qualsiasi a Dylan Dog




C'è un italiano, a Londra, uno come tanti, che ha uno snack bar (uno come tanti). Non è a Piccadilly Circus, non è di fronte alla Tate Gallery, è in una strada come tante, eppure negli ultimi due decenni ha fatto discreti affari grazie soprattutto ai turisti. Turisti italiani, per la precisione; giovani perlopiù.
Il locale si chiama Bruno’s cafe (eccolo), e il suo indirizzo è 7 Craven road, W2 3BP London. Chi ha familiarità con l’oggetto (di culto) di cui stiamo per trattare, avrà già capito dove voglio andare a parare. Chi invece crede che Dylan Dog sia la marca di un cibo per cani, si chiederà se nei bar inglesi vendano alimenti per animali.
Il fatto è che quando Tiziano Sclavi, a metà degli anni Ottanta, stava creando il personaggio che l’avrebbe reso fin troppo celebre per i suoi gusti (e per le sue fobie), si trovò naturalmente a dovergli dare un tetto sotto cui vivere e un luogo in cui ambientare le sue vicende. È cosa nota che l’antenato diretto di Dylan Dog sia Francesco Dellamorte, protagonista di uno dei primi romanzi di Sclavi, Dellamorte Dellamore (rimasto inedito fino al 1992 e portato al cinema da Michele Soavi nel 1994); Dellamorte è il guardiano del cimitero di un paese della Bassa lombarda (terra natia dello stesso autore), ma Dylan Dog è un tipo di personaggio che richiedeva un’ambientazione più classica e al tempo stesso più grande, di più ampio respiro e più frastornante. La testata non cerca certo di spacciare per veri zombi, vampiri e licantropi, anzi i primi ad essere scettici sono gli stessi protagonisti (Dylan è scettico verso i clienti, Bloch lo è verso Dylan, Groucho non si pone neanche il problema), però localizzare un’intera serie di orrore e fantasia nella provincia italiana avrebbe probabilmente fatto saltare quell’alone di dubbio e di mistero che un’ambientazione straniera avrebbe potuto assicurare più agevolmente. Così si optò per Londra, grande metropoli, città misteriosa per eccellenza (vertice del triangolo di magia nera con Torino e San Francisco), già residenza di altri celebri indagatori, e nebbiosa e fluviale, proprio come la Bassa. Ma Sclavi non voleva un indirizzo reale – come il 221/b di Baker Street, domicilio di Sherlock Holmes – così si inventò il nome della strada omaggiando il regista di Nightmare Wes Craven, senza tuttavia sapere che di Craven Road, a Londra, ne esistevano ben quattro (e in una di queste, la più centrale, si trova il bar di cui sopra, meta di pellegrinaggio dei dylaniani di passaggio a Londra).
Questa dunque l’origine dell’indirizzo più famoso del fumetto italiano, che d’altronde non è affatto elemento marginale, se è vero che il primo episodio della serie (L’alba dei morti viventi, n.1, di Sclavi/Stano, ottobre 1986) si apre, dopo un classico prologo da film horror, con questa tavola prima ancora di mostrare il protagonista e i suoi comprimari. E l’importanza di aprire evidenziando la strada sta ad esempio, oltre che nel raccordo di posizione, tipica apertura dei racconti di genere, nel mostrare uno dei tratti somatici della creatura di Sclavi: la citazione (cinema in primis, ma non solo).



La tavola successiva si apre con un classico della serie, una delle vignette che più saranno riproposte nelle trecento e più storie pubblicate, quella vignetta che probabilmente Sclavi nella sceneggiatura avrà descritto così:
“Groucho socchiude (anzi, soapre) la porta e si affaccia verso il lettore in PP (Groucho, non il lettore).
Groucho: Sì?
Segue, visto che si tratta del primo numero, descrizione di Groucho, ma forse sarebbe del tutto superflua. Basta il nome.
Groucho è infatti identico al suo celebre omonimo, Groucho Marx, il più grande comico della storia dello spettacolo. Alle volte cerca anche di dare a intendere di trattarsi proprio dell’attore, lancia qualche allusione (“Ho lavorato al cinema. Probabilmente avrete sentito il mio nome: Pinco Pallino”) specialmente nelle prime storie, ma la sua identità resta sempre nel dubbio. Ha lo stesso volto, la stessa fisicità, lo stesso portamento, la stessa tempra e lo stesso carattere dell’attore da cui prende anche il nome. E la stessa funzione.
Groucho è il caos. È la voglia anarchica di sovvertire la banalità del mondo delle convenzioni. Una delle tante facce di Sclavi, insomma. È la frustrazione delle aspettative (proprio come lo erano i Marx) dei clienti che si aspettano serietà; è una scheggia impazzita; è l’elemento sovversivo che fa saltare in aria il meccanismo di standardizzazione sociale.
Groucho è l’assistente di Dylan, anzi, “assistente, amico e rompiscatole personale”, come spiega lo stesso Dylan alla malcapitata di turno. Ed è il caos, dicevo. È il contrappunto alla follia dell’ordinario, è il modo attraverso cui Sclavi dimostra che l’uomo normale oggi è una specie di mostruosità, un abominio della società, è a tutti gli effetti un alienato. I clienti di Dylan, che vanno da lui perché hanno il classico spettro sumero nel frigorifero, o hanno a che fare con succhiasangue, demoni, case stregate, eccetera, o in alternativa perché hanno ammazzato qualche decina di persone (alcune delle quali magari non erano d’accordo), fuggono spaventati dalle battute a raffica di Groucho. Non si scompongono per il campanello che urla invece del solino drin drin, né per le riproduzioni dei mostri che affollano l’atrio dell’appartamento di Dylan, ma vanno su tutte le furie dopo tre o quattro grouchate, peggio ancora se Dylan stesso trova l’occasione di rincarare la dose facendo umorismo a sua volta. L’ironia per Sclavi è l’altra faccia della realtà, è il modo migliore (e unico?) di affrontare l’orrore quotidiano, e l’orrore del quotidiano; e di riflesso è anche il modo in cui rendere digeribili gli orrori più propriamente detti che affollano le sue storie (che si tratti di un mostro che dilania persone a morsi, o di un impiegato delle poste che tratta male l’anziano poco pratico con scartoffie e affini). Nell'albo L'uomo che visse due volte (n.67, di Sclavi/Venturi, aprile 1992), geniale adattamento de Il fu Mattia Pascal (Pirandello è fondamentale in tutta la poetica sclaviana), Groucho tocca il suo apice: Bloch finisce in coma, e Groucho ce lo fa uscire a raffiche di battute (fino a quando il commissario non è costretto a risvegliarsi per chiedere pietà)! Per dirla con Giampiero Casertano, uno dei principali disegnatori della serie: “La sua geniale follia è proprio questa: stemperare, dare un tocco di comicità al dramma e far tirare un sospiro di sollievo al lettore”.
Groucho, oltre dunque alle battute figlie dei Marx, di Woody Allen, di Mae West, di Totò e quant’altri, fa ben poco. E lo fa male, nel senso che lo fa al contrario di come ci si aspetterebbe (sempre e solo frustrazione delle aspettative). Perché ad esempio, dopo aver dato un’idea di sé tutt’altro che affidabile, prepara un ottimo tè, e spesso capita che tenga la situazione sotto controllo molto più dell’impulsivo Dylan, risultando determinante nella risoluzione del caso. All’atto pratico ha una sola funzione, che è quella di tenere in custodia la pistola del capo (che è sempre attaccato al collo, è bene ricordarlo) e lanciargliela nel momento clou dell’azione. Ma, non di rado, capita che si dimentichi di caricarla, che la tiri con scarsa precisione (magari in faccia a Dylan), che l’abbia persa (“L’avrò mandata in lavanderia”), che la scambi con qualcos’altro (una pistola finta, o più spesso un oggetto del tutto fuori contesto); qualcosa insomma che generi ilarità anche nel momento più drammatico e coinvolgente dell’albo.
Sclavi è uno che ama prendersi poco sul serio. All’apparenza, perché poi questo gli permette di sorprendere gli altri dimostrando quello che sa di valere.
Sclavi è Groucho.




Studi iniziali del disegnatore Claudio Villa per il protagonista (che doveva chiamarsi Francesco Dellamorte) e per la spalla comica (ispirata all'attore Marty Feldman)



Anche il volto di Dylan (definito dopo numerose prove e varie soluzioni diverse discusse tra Sclavi e il disegnatore Claudio Villa, creatore grafico della serie) viene dal grande schermo, è quello del Rupert Everett di La scelta (Another Country), il film che convinse definitivamente Sclavi, e che l'autore impose di vedere a Villa, quando stava definendo i primi studi e i primi bozzetti su un personaggio che appariva diverso tanto graficamente quanto caratterialmente (Sclavi aveva in mente un protagonista cupo, chandleriano) dal Dylan che conosciamo oggi. Qui la somiglianza è meno funzionica che per Groucho, ma resta comunque importante la scelta del modello, che – come un po’ per tutti i personaggi a fumetti – contribuisce a definire meglio il carattere del protagonista, attraverso quelli che sono un po’ i tratti principali del personaggio-attore scelto. Dylan come Rupert Everett (o meglio, come i personaggi che Everett interpreta) ha l’aria da bello e dannato ma è un romantico sognatore, “sguardo malinconico, tra la noia e l’aristocratico, gentile ma un filo snob” (G. Origa). E non è un caso che per interpretare Francesco Dellamorte, nel film di Soavi, sia stato voluto proprio l’attore inglese (scelta congeniale sia all’autore, che ha avuto il volto su cui il personaggio era stato modellato, che ai produttori, che hanno potuto lanciare la pellicola come il film di Dylan Dog, proprio nel periodo in cui il suo successo stava esplodendo).
Dylan è l’Indagatore dell’incubo. A leggere la sua targhetta, si potrebbe pensare anche a una specie di strizzacervelli. E in qualche modo lo è. I suoi clienti però non sono quelli che nelle storie richiedono i suoi servigi, che sono di tutt’altro tipo. A farsi condurre attraverso la propria psiche è invece il lettore. Il lettore si identifica in Dylan perché Dylan è più persona che personaggio: è una sorta di eroe nel senso più pieno del termine, a metà tra Nero Wolfe, Casanova, John Wayne e Batman, eppure è tutt’altro che senza macchia né paura; è un virtuoso, pacifista, astemio, vegetariano, non fuma, non guarda la tv, se ne infischia della moda e gli viene l’orticaria alla sola idea di trovarsi in una discoteca, eppure è l’antieroe per eccellenza, claustrofobico, acrofobico, ha una fifa matta dei pipistrelli e di altre creaturine varie; ex alcolizzato, ex agente di Scotland Yard, suona il clarinetto ma malissimo (come Woody Allen, guarda un po’), dedica il tempo libero alla costruzione di un modellino di galeone ma non riuscirà mai – per fortuna sua e nostra – a finirlo, spara sentenze a metà strada tra frasi storiche e retorica da due soldi, è scettico ma non scarta nessuna possibilità, si innamora ogni mese e ogni mese è quella buona da sposare, ma rimane puntualmente piantato in asso o con una fidanzata che a fine albo o è stecchita o è una serial killer. È generoso ed egoista, ha i suoi saldi princìpi morali ma fa del dubbio la colonna portante della sua filosofia.
Dylan è umano, è un ragazzo interessante. Per questo ha tanto successo.
Chi sia in realtà Dylan, però, è difficile a dirsi. Certo, abbiamo detto che è l’indagatore dell’incubo, detective specializzato in casi insoliti, fantasmi, morti viventi, lupi mannari. Mostri. Sappiamo che è un londinese poco oltre la trentina, un ciarlatano secondo la stampa, un dongiovanni secondo le – fondatissime – voci metropolitane. Veste in jeans, camicia rossa, giacca scura, Clerks; ha decine di completi tutti identici; l’amico Bloch gli chiede “Non potresti comprarti un cappotto?” “Mi rovinerebbe il look”. Piccole cose per descrivere una persona. Come l’intercalare, “Giuda ballerino!”, un po’ sofisticato e un po’ ridicolo, surreale e assurdo; nei primi anni si azzardava ad aggiungere di tanto in tanto un “… e porco!”, ogni tanto partiva anche qualche parolaccia – caso più unico che raro nella storia della Bonelli Editore, o Daim Press come si chiamava vent’anni fa – ma come sappiamo ci ha messo poco Dylan Dog a finire nelle mire dei potenti, delle istituzioni e della censura, se già in Caccia alle streghe (n.69, di Sclavi/Dall’Agnol, giugno 1992) l’autore urlava la sua rabbia e la sua disperazione per il trattamento assurdo che stavano riservando alla sua creatura. E, sempre nei primi anni, intorno all’identità di Dylan si era creato un alone di mistero perfettamente in linea con i toni che aveva allora la serie. Sempre nel n.1, Groucho dice che Dylan è morto nel 1686 e quello di ora è la sua reincarnazione, e le allusioni di questo tipo continuano in diversi albi successivi; ma è Groucho a farle, per cui chi volete che gli dia retta? Il passato del Nostro comunque viene tenuto oscuro più che segreto, qualche flash ogni tanto giusto per aumentare il mistero, persone che ha conosciuto, posti che ha visitato. Nell’albo più anomalo e romantico dell’intera serie, Il lungo addio (n.74, di Sclavi/Marcheselli/Ambrosini, novembre 1992), ci si racconta di una storia d’amore vissuta da Dylan nell’adolescenza. Ma difficilmente si va più indietro. Fino al botto. Il n.100 (tutto a colori, come da tradizione bonelliana) si intitola La storia di Dylan Dog (di Sclavi/Stano, gennaio 1995), ed è l‘ultimo album della serie. Cioè, la serie continua, ma il centesimo episodio ci narra la sua fine. O una sua possibile fine. Nell’albo, Dylan finalmente completa il galeone, e questo apre una porta tra mondi e destini diversi, tra futuro presente e passato, un passato che effettivamente è di secoli fa, e che potrebbe confermare – o almeno, non smentisce – le allusioni di Groucho. Ma queste scemano definitivamente dopo i pezzi aggiunti al puzzle dall’albo Finché morte non vi separi (n.121, di Sclavi/Marcheselli/Brindisi, ottobre 1996), che festeggia il decennale della testata raccontando nientedimeno che del matrimonio di Dylan! Sì, almeno una delle sue donne Dylan è riuscito a sposarla davvero, anche se – il titolo dell’albo è eloquente – è durata ben poco, dato che sua moglie, Lillie Connolly, è un’attivista dell’Ira che muore in prigione poco dopo il matrimonio. Sarà questa tragedia a spingere Dylan a lasciare la polizia, e a condurlo all’alcolismo, come viene spiegato nel Numero duecento (n.200, di Barbato/Brindisi), in cui Dylan sceglie il nuovo lavoro, incontra Groucho e lo assume (o meglio, è Groucho che si auto-assume). Ma il nuovo (recentissimo) grande botto avviene con il doppio albo del ventennale, Xabaras! e In nome del padre (nn.241-242, di Barbato/Brindisi, ottobre-novembre 2006), in cui finalmente si va più indietro nel tempo, seppure sempre in maniera onirica e visionaria, fino all’infanzia di Dylan, che sembrerebbe effettivamente nato nel diciassettesimo secolo, figlio del suo nemico giurato… ma non dico altro.
La sua storia è avvolta nel dubbio che avvolge sé stesso. Ed è in ogni caso una storia di amore, di amori, di amore e morte, di amore e orrore. È la storia di un essere umano, uno come tanti.
Sclavi è uno che riesce a riflettersi nei personaggi che crea, riesce a dotarli della sua infinita umanità.
Sclavi è Dylan.




Dylan Dog visto dal grande Giancarlo Alessandrini, che dell'indagatore dell'incubo ha disegnato l'albo Gigante n.13



Ci sarebbero poi da descrivere pochi altri personaggi.
Il commissario Bloch di Scotland Yard, ex capo di Dylan e sorta di padre putativo del Nostro, a cui dà sempre una mano passandogli dossier, informazioni, e permessi vari; è un omone buono (ha il volto e la fisionomia dell’attore Robert Morley) con la pazienza agli sgoccioli anche per causa dello strampalato assistente Jenkins, la pensione di anzianità sempre più lontana e l’esaurimento nervoso sempre più vicino (Sclavi è Bloch).
Il miliardario Lord H.G.Wells, col nome del famoso romanziere e il volto di David Niven, è l’uomo più stravagante e più geniale del pianeta. Ha l’inventiva di Archimede e i soldi di Paperone, è stralunato come Paperoga, e non sbaglia un colpo, trovandosi spesso ad aiutare Dylan.
Xabaras, genio del male continuamente alla ricerca di un modo per far tornare in vita i morti, è il nemico numero uno (infatti appare nel numero uno) di Dylan. Ed è suo padre.
Morgana, uno dei più forti e più folli amori di Dylan. È sua madre.
Bree Daniels è una prostituta (libera professionista, prego!) che incrocia la strada di Dàilan (come lo pronuncia) in tre o quattro occasioni, ma solo due davvero. Ha il volto e il nome del personaggio interpretato da Jane Fonda nel film Una squillo per l’ispettore Klute.
La Morte, mantello nero e falce in spalla, interpreta sé stessa, e in una serie del genere non è un ruolo marginale.



E poi ci sono i mostri.
Johnny Freak (sfortunato ragazzo protagonista dell’albo più commovente della serie, e di un seguito), Killex (un parente molto prossimo di Hannibal Lecter), Mana Cerace il mostro del buio, il piccolo Ghor, Frankenstein, scienziati pazzi, assassini, vittime della società, demoni…
In ogni caso, umani.
“Io non sono né Dylan né Groucho: io sono i mostri” (Tiziano Sclavi).

15 commenti:

  1. Sono abbastanza soddisfatto per la forma, poco per l'approfondimento. In realtà ci sarebbero voluti un post per Dylan, uno per Groucho, uno per i comprimari (e pure uno per l'indirizzo). Ma daltrònde esistono testi e testi sul mondo di Dylan Dog, e questo non è un blog monotematico.

    Quindi se qualcuno vuole di più, ricevo in privato.

    Cento sterline al giorno, più le spese.

    Fermo restando che ho in mente almeno altri due post su dyd, che però sarebbero un po' più complessi.

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  2. In effetti subordinare l'universo dogiano a un singolo post è quasi un delitto. Quindi io opto per il si: comincia a scrivere anche gli altri due post che hai mente, in fondo è pur sempre uno dei massimi esponenti del fumetto italiano. Soprattutto, per quanto mi riguarda, sarei interessato a conoscere le evoluzioni successive al numero 100 (dato che io smisi di leggerlo poco dopo... lo so, sono un fottuto opportunista, rassegnatevi).

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  3. Complimenti Sandro, è davvero un bell'articolo! E poi il disegno con dedica... :) !

    Comunque ho letto sporadicamente qualche Dylan Dog nei primi anni di liceo e col tuo post non solo mi son tornate alla mente tante cose ma ne ho imparate un sacco di cui ignoravo totalmente l'esistenza!

    Ora che hai iniziato il lavoro, non puoi lasciarci cosi': devi continuare a scrivere! ^^

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  4. scrivi ancora, Sandro...questo post è interessante anche per una ex dylaniata di ferro come me (mica lo sapevo che Bree Daniels era Jane Fonda...)

    e ci sono degli album di Dylan che da soli meriterebbero un post.

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  5. ho dimenticato Madame Trelkovski, la medium che va al maximum!

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  6. Articolo interessante per un neofita dylandoghiano come me..ho iniziato a leggere le ristampe da qualche mese..fortunatamente ne ho centinaio belle pronte e le sto divorando con comodo. Chi me le ha prestate comuque ha smesso poco dopo lamentando un drastico calo delle trame.

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  7. Sta venendo su un ottimo blog. Complimenti anche a Sandro.

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  8. Bravo Sandro. Di Dylan Dog amo in particolare le storie sceneggiate da Tito Faraci, esempio vivente di come si può essere ai massimi livelli lavorando contemporaneamente in Disney e in Bonelli.

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  9. Sono eccitato per la notizia che ho appena letto. Non so come definirla.

    La dico e basta.


    Dunque pare che il n.250 (luglio prossimo) sarà tutto a colori, su carta patinata (tipo quella degli almanacchi, se qualcuno ha dimestichezza con i bonellidi), composto da 4 brevi storie tutte di autori diversi.

    E questo lo si sapeva già.


    Una delle quattro storie (quella scritta dalla Barbato) sarà disegnata da MILO MANARA.

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  10. ... Tra l'altro farà Dylan Dog con le tette.

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  11. che poi la storia, specie se scritta appositamente per lui, farà di certo cagare.

    però cacchio, è sempre dylan con le tett... è sempre milo manara che disegna dylan dog.

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  12. Sai già di chi sarà la storia?

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  13. ma porc...! eccheccazzo, a me l'avevano spacciata come vera!

    dannati passaparola infami...


    ma uffaaaaaaaaaa!


    e io che stavo già preparando un articolo su Manara....

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  14. Beh, in ogni caso l'articolo su Manara ci sta comunque. Tra l'altro è un autore che conosco poco e niente e di cui mi piacerebbe sapere di più.

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